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Il governo Meloni ha tagliato le tasse ai ricchi: ecco i dati che lo provano

Le analisi di Bankitalia, Istat e Ufficio parlamentare di bilancio smentiscono la narrazione del governo: il taglio dell’Irpef premia soprattutto i redditi alti. L’85% dei benefici finisce nelle tasche dei più ricchi, mentre per lavoratori e pensionati il vantaggio è quasi nullo.
A cura di Francesca Moriero
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C'è un paradosso nel cuore della manovra economica del governo Meloni. Presentata come un intervento "per il ceto medio" e per "difendere il potere d'acquisto degli italiani", la riforma dell'Irpef approvata nell'ultima legge di Bilancio finisce invece per favorire i contribuenti più benestanti, in parole povere: i più ricchi. A dirlo non è l'opposizione, ma le istituzioni indipendenti che vigilano sui conti pubblici: Bankitalia, Istat e l'Ufficio parlamentare di bilancio. Numeri alla mano, il taglio dell'aliquota dal 35 al 33% per i redditi tra 28 e 50 mila euro assegna l'85% dei benefici alle fasce più ricche della popolazione, con effetti minimi per lavoratori e pensionati a basso reddito. In pratica, la gran parte delle risorse finisce a chi guadagna di più, mentre per chi ha stipendi medio-bassi il vantaggio si riduce a pochi euro l'anno, spesso troppo pochi per fare la differenza nella vita quotidiana.

Il cuore della riforma: chi guadagna davvero

La misura bandiera della manovra, il taglio della seconda aliquota Irpef, costa allo Stato circa 2,7 miliardi di euro. Ma, secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio, la metà di queste risorse va all'8% dei contribuenti, ossia a chi dichiara più di 48 mila euro l'anno. In altre parole, parliamo di chi guadagna abbastanza da essere considerato benestante in Italia, una soglia che non tutti raggiungono. È un effetto domino: più il reddito cresce, maggiore è il vantaggio fiscale. E i dati parlano chiaro: un dirigente guadagna in media 408 euro in più l'anno, un impiegato 123, un autonomo 124, un pensionato 55 e un operaio appena 23.

A confermare il quadro c'è l'Istat: oltre l'85% del beneficio complessivo finisce nei due quinti più ricchi della popolazione, e per tutte le classi di reddito il vantaggio è inferiore all'1% del reddito familiare. In sostanza, chi già dispone di redditi alti riceve quasi tutto il beneficio, mentre per la maggioranza delle famiglie l’impatto è quasi impercettibile. Insomma, una misura che "taglia le tasse" ma non riduce le disuguaglianze, anzi, finisce per allargarle, concentrando i vantaggi fiscali su chi già gode di redditi più alti e lasciando indietro la gran parte dei lavoratori e dei pensionati.

Cosa dice Bankitalia

Bankitalia è netta: "Le misure non comportano variazioni significative nella distribuzione del reddito disponibile". Tradotto: i ricchi restano ricchi e i poveri restano poveri.

L'istituto guidato da Fabio Panetta ricorda poi che, tra il 2019 e il 2023, le famiglie italiane hanno perso circa il 10% del potere d’acquisto, recuperandone solo tre punti. Una perdita che il nuovo taglio Irpef non riesce a compensare, se non per una minoranza di lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. In altre parole, significa che l'aumento dei prezzi ha mangiato molto più di quanto il governo restituisca con il taglio delle tasse: chi spendeva 100 euro cinque anni fa oggi deve spenderne 110 per avere le stesse cose, ma lo sconto fiscale medio è di appena pochi euro al mese.

Dietro il linguaggio tecnico c'è una realtà semplice: la riduzione delle aliquote non basta a restituire alle famiglie ciò che l'inflazione e il fiscal drag, cioè l'aumento automatico della tassazione dovuto alla crescita dei prezzi, hanno eroso negli ultimi anni. Ridurre di due punti l'aliquota, dal 35% al 33%, sembra un grande intervento, ma nella pratica significa uno sconto di poche centinaia di euro l'anno concentrato su chi guadagna di più.

Fiscal drag e illusioni di equità

Il risultato è che la manovra non solo non riequilibra i redditi, ma finisce per consolidare le differenze già esistenti. Il governo rivendica di aver "neutralizzato" il fiscal drag, e cioè l'aumento delle tasse che scatta automaticamente quando, a causa dell'inflazione, gli stipendi crescono nominalmente ma si finisce per pagare più imposte. In sostanza, lo Stato dice di aver restituito ai cittadini quello che l'inflazione aveva eroso. Ma i calcoli dell'Ufficio parlamentare di bilancio raccontano un'altra storia: solo chi guadagna fino a 32 mila euro l'anno ha davvero recuperato tutto, cioè ha riavuto indietro in busta paga quanto perso per effetto dell'inflazione; chi sta tra 32 e 45 mila euro ha recuperato invece solo una parte, e sopra quella soglia il vantaggio scompare del tutto. Per gli autonomi e i pensionati, poi, non ci sarebbe stata alcuna compensazione: l'inflazione avrebbe infatti ridotto il potere d'acquisto e il fisco non ha restituito nulla.

Ma proprio i redditi oltre i 28 mila euro, e quindi anche quelli più alti, sono i principali beneficiari del nuovo taglio Irpef. Significa che chi già guadagna di più ottiene un ulteriore vantaggio fiscale, mentre chi sta sotto resta sostanzialmente fermo. In totale, la misura riguarda circa 13 milioni di contribuenti, ma la distribuzione è fortemente squilibrata: pochi guadagnano molto, molti guadagnano pochissimo. Una misura molto ampia, ma tutt'altro che equa.

Il nuovo Isee e la beffa per giovani e affittuari

Alla disuguaglianza fiscale si aggiunge poi anche quella sociale. La revisione dell'Isee, voluta dal governo per "aggiornare" i criteri di accesso alle agevolazioni, finisce per favorire le famiglie proprietarie di casa e penalizzare quelle che vivono in affitto, spesso giovani e straniere. La franchigia sulla prima casa sale da 52.500 a 91.500 euro, e la nuova scala di equivalenza premia i nuclei con molti figli. Ma, secondo i dati Istat, la povertà assoluta colpisce il 22% degli inquilini e meno del 5% dei proprietari. Risultato: chi ha un immobile viene agevolato, chi paga un affitto resta indietro.

Giorgetti si difende, ma i conti non tornano

Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti ha respinto le accuse sostenendo che l'intervento tutela i redditi medi e mantiene l'equilibrio dei conti pubblici, ma i dati parlano chiaro e mostrano che i benefici principali sono andati ai redditi più alti.

Bankitalia e la Corte dei Conti mettono in dubbio anche la "rottamazione" delle cartelle fiscali: rischia di scoraggiare i contribuenti che pagano regolarmente le tasse e di danneggiare la fiducia nel sistema. In parole semplici, secondo i dati, la manovra ha un problema di fondo: non ridistribuisce le risorse, non aiuta davvero l'economia a crescere e non riduce le disuguaglianze tra chi guadagna di più e chi guadagna di meno.

Maledetti numeri

Giorgia Meloni rivendica una politica economica "responsabile£ e  attenta ai conti pubblici, ma gli stessi numeri su cui poggia la sua manovra dicono esattamente il contrario. Bankitalia, Istat e Upb non parlano per partito preso: certificano che il governo ha scelto di alleggerire il carico fiscale per chi guadagna di più. E sui dati non si 0uò discutere: i numeri parlano da soli.

In un Paese dove il potere d'acquisto dei salari è tra i più bassi d'Europa, il rischio è però che la promessa di "più soldi in busta paga" resti, così, l'ennesimo slogan.

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