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Il cambio di genere va riconosciuto tra Stati membri: cosa dice la Corte di giustizia Ue

Il parere dell’Avvocatura generale della corte riguarda il caso di un cittadino romeno. Nel 2017 aveva ottenuto il riconoscimento della propria identità maschile nel Regno Unito, ma al ritorno in Romania le autorità nazionali gli avevano negato il cambio di identità sui documenti.
A cura di Pietro Forti
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Nessuno Stato dell'Ue può rifiutare di riconoscere il cambio di nome e genere già avvenuti in un altro Stato membro, "è contrario ai diritti dei cittadini dell'Unione". Questo il parere dell'Avvocatura generale della Corte di giustizia Ue.

Il caso al centro di questa presa di posizione è quella di un cittadino romeno: registrato alla nascita come di sesso femminile, cambiò legalmente il genere nel 2017, dopo essersi trasferito nel Regno Unito. I documenti emessi nel Paese, secondo l'avvocato generale Jean Richard de la Tour, sono validi: all'epoca la Gran Bretagna non era ancora uscita ufficialmente dall'Unione europea e faceva parte dell'area Schengen, perciò un cittadino romeno poteva circolarvi e soggiornarvi liberamente.

Le motivazioni del parere della Corte

Le autorità romene, inizialmente, avevano rifiutato di registrare questo cambio avvenuto nel Regno Unito. Il cittadino romeno in questione aveva quindi fatto richiesta a un tribunale di Bucarest di ordinare l'adeguamento del suo atto di nascita al suo nuovo nome e alla sua identità di genere, entrambi riconosciuti ufficialmente oltremanica. Dopodiché, la corte romena aveva chiesto un parere alla Corte di giustizia Ue, dal momento che il rifiuto iniziale si basava sulla normativa nazionale e che, perciò, era necessaria una verifica sulla conformità alle norme europee e sull'eventuale impatto della Brexit su questa vicenda.

L'avvocato generale, nell'esprimere il parere contrario alla decisione delle autorità romene, ha voluto motivare così la sua scelta: "Il diritto alla libera circolazione dei cittadini dell'Unione e il diritto al rispetto della loro vita privata ostano a che le autorità di uno Stato membro rifiutino di riconoscere e iscrivere nei registri dello stato civile il nome acquisito da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro di cui è parimenti cittadino – si legge nel parere – Lo stesso vale per il rifiuto da parte di tali autorità di riconoscere l'identità di genere acquisita dal cittadino in questione in tale altro Stato membro e di iscriverla senza alcun procedimento nel suo atto di nascita". Spetta ai singoli stati membri, comunque, prevedere "gli effetti di tale riconoscimento e di tale iscrizione in altri atti di stato civile nonché in materia di matrimonio e di filiazione".

Il precedente: la Corte europea dei diritti umani e il caso della cittadina transgender italiana

Non è la prima volta che una Corte europea si esprime contro la decisione di uno Stato nazionale nell'ambito della transizione di genere: nel 2018, era stata la Corte europea dei diritti umani a esprimersi in una sentenza su un caso italiano. La questione risaliva al 2003: a essere discussa era la decisione del prefetto di Roma, che aveva autorizzato una cittadina transgender a cambiare il proprio nome maschile, nonostante la transizione fisica dal sesso maschile a quello femminile non fosse ancora stata completata. Il Tribunale di Roma, infatti, aveva dato il suo consenso alla transizione sessuale nel maggio del 2001. Per due anni e mezzo, fino all'ottobre del 2003, le autorità italiane non avevano tuttavia dato la possibilità alla cittadina di identificarsi con il suo nome femminile.

Nel 2018, infine, la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto che l'identità sociale e l'aspetto fisico della cittadina in questione erano riconoscibili come di genere femminile da molto tempo, e che perciò senza il riconoscimento della sua identità di genere sarebbe venuto meno il rispetto della sua vita privata.

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