Gli Stati Uniti mettono il veto su una risoluzione dell’ONU per il cessate il fuoco a Gaza: è la quinta volta

Non è più "solo" un'invasione militare e neppure "solo" una crisi umanitaria. Quella in corso nella Striscia di Gaza sembra diventata, giorno dopo giorno, sempre più un caso da manuale di collasso morale dell'intera comunità internazionale. Si chiudono i centri di distribuzione del cibo, si spara sulla folla affamata, si zittiscono le risoluzioni di pace e si rimuovono le regole basilari del diritto, anche in guerra. Tutto questo, mentre la voce più autorevole e neutrale nel campo umanitario, ovvero quella del Comitato internazionale della Croce Rossa, rompe il riserbo istituzionale per denunciare l'"inferno in terra". A rendere ancora più drammatico il quadro, il voto di veto espresso dagli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU: un no secco a una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato, il rilascio degli ostaggi e l'ingresso degli aiuti senza condizioni. Quella risoluzione, sostenuta da 14 Paesi su 15, è stata bloccata da Washington in nome di un fragile equilibrio geopolitico, mentre le bombe e la fame continuano a ridurre Gaza in macerie fisiche e morali. È la quinta volta, dall'inizio dell'invasione militare israeliana, che gli Stati Uniti si oppongono a una risoluzione simile.
Croce Rossa: "Gaza è peggio dell'inferno"
La frase è di quelle che restano impresse: "Gaza è diventata peggio dell'inferno sulla Terra". A pronunciarla è Mirjana Spoljaric, presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), intervistata dalla BBC da Ginevra. Una figura che incarna la tradizione della neutralità assoluta, della discrezione diplomatica e dell'operatività silenziosa nei conflitti più pericolosi del pianeta. "Ciò che sta accadendo supera ogni standard legale, morale e umano accettabile. I palestinesi sono stati privati della loro dignità". Un'accusa durissima, che mira tanto alla devastazione materiale quanto a quella etica, e che punta il dito contro la sistematica erosione del diritto internazionale umanitario. Il Cicr, che gestisce un ospedale da campo a Rafah, il più vicino al punto dove il 2 giugno sono stati uccisi 27 civili, denuncia anche la dinamica dei fatti: l'Idf ha aperto il fuoco su "sospetti" che si avvicinavano ai centri di aiuto "fuori dai percorsi prestabiliti". Ma l'idea di "zona di combattimento" applicata alle vie d'accesso al cibo rende ormai la vita stessa un bersaglio.
I centri di aiuto chiudono
Come se non bastasse il fuoco, arriva anche l'interruzione degli aiuti. I tre centri di distribuzione allestiti nella Striscia di Gaza dalla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), la fondazione americana privata, di ispirazione filo-israeliana, hanno chiuso ieri per "lavori di ristrutturazione logistica". Una sospensione che la Ghf definisce "momentanea" ma che, nel contesto attuale, ha avuto l'effetto di spegnere anche l'ultima flebile speranza di approvvigionamento per migliaia di famiglie. La stessa fondazione ha dichiarato che la chiusura servirà per "migliorare la gestione della folla" e adattare i percorsi d'accesso alle nuove condizioni imposte dall'Idf, che ha dichiarato quei tratti "zona militare attiva". Una formulazione che, di fatto, legittima il ricorso alla forza anche contro civili in fila per un sacco di farina. Nonostante le promesse di riapertura parziale "nel corso della giornata", ieri sera la fondazione non era in grado di confermare nemmeno l'rario per la ripresa delle operazioni.
Veto americano: la diplomazia muore in Consiglio
L'ennesima occasione per un'inversione di rotta si è poi dissolta nel giro di una votazione al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. La risoluzione proposta dai dieci membri non permanenti chiedeva il cessate il fuoco immediato, il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e l'ingresso illimitato degli aiuti umanitari nella Striscia. Un testo lineare, sostenuto da 14 voti su 15, eppure fallito. Il motivo è sempre lo stesso: il veto degli Stati Uniti. L'ambasciatrice americana Dorothy Shea ha dichiarato "inaccettabile" la proposta perché, a suo dire, "comprometterebbe gli sforzi diplomatici in corso" e "rafforzerebbe Hamas". Ma soprattutto, ha aggiunto, "traccia una falsa equivalenza tra Israele e Hamas", negando quindi che le due parti possano essere messe sullo stesso piano nel giudizio internazionale. È il primo veto americano sulla guerra a Gaza sotto la seconda presidenza Trump. Un segnale che, a livello geopolitico, ribadisce l'allineamento totale tra Washington e Tel Aviv.
Crimini di guerra e silenzi assordanti
Le parole più forti, dopo quelle della Croce Rossa, arrivano dall'Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Volker Türk. Parlare apertamente di "crimini di guerra" non è usuale per un alto funzionario ONU, ma dopo giorni di sparatorie sui civili in attesa di aiuti alimentari, non restano molti margini per l'ambiguità diplomatica. Türk definisce gli attacchi come "immorali, illegali e inaccettabili". E nel vuoto istituzionale lasciato dal fallimento del Consiglio di Sicurezza, le sue dichiarazioni suonano come un appello solitario contro l'impunità. Nulla si muove però sul piano operativo, né dal lato israeliano, concentrato sulle fratture interne al governo Netanyahu (che rischia la crisi per la questione della leva militare degli ultraortodossi), né da parte internazionale, dove l'immobilismo americano paralizza ogni possibile iniziativa multilaterale.
Il conflitto si allarga
E mentre Gaza brucia e la diplomazia sembra ancora una volta tacere, la tensione si estende anche oltre i confini. Martedì 3 giugno, un gruppo siriano noto come Fronte della Resistenza Islamica, affiancato da una milizia che si fa chiamare Brigata Mohammed Deif, ha rivendicato il lancio di razzi contro Israele. Una risposta diretta, a detta dei portavoce, alle "stragi commesse da Israele in Palestina, agli attacchi quotidiani in Siria e alla normalizzazione dei rapporti tra Damasco e Tel Aviv". La dichiarazione è stata diffusa dall'emittente libanese filo-Hezbollah Al-Mayadeen. Non vi sono state, per ora, conferme indipendenti sulle responsabilità, ma il segnale appare chiaro: mentre a Gaza si soffoca nel silenzio internazionale, la rabbia si espande a raggiera in tutta la regione.
Intanto, in Italia, si avvicinano le date di due manifestazioni nazionali, la prima promossa dai leader di Pd, 5S e Avs per sabato 7 giugno in piazza San Giovanni a Roma, la seconda convocata da Azione e Iv per domani, venerdì 6 giugno, al Parenti di Milano. Due eventi che hanno fin da subito avuto una gestazione complicata, merito di un'iniziale spaccatura interna, ma con i quali tutte le forze del centrosinistra puntano a radunare decine di migliaia di persone, per chiedere azioni concrete per fare pressione sul governo israeliano e spingerlo a cessare le operazioni militari nella Striscia di Gaza.