Genova, al via educazione sessuo-affettiva a scuola, Salis: “Serve regia nazionale, non gesti simbolici”

Il 25 novembre scorso, mentre a livello nazionale si discuteva ancora di definizioni legali del consenso, a Genova è avvenuto qualcosa di diverso, si è deciso di partire da ciò che che precede ogni legge: la formazione. In quattro scuole dell'infanzia comunali ha preso infatti il via un progetto pilota di educazione sessuo-affettiva rivolto ai più piccoli, bimbi e bimbe tra i tre e i cinque anni. Un'ora alla settimana, circa 300 piccoli partecipanti, e un obiettivo semplice ma radicale: insegnare rispetto, gestione delle emozioni e riconoscimento dei confini personali prima che atteggiamenti distorti diventino abitudini invisibili.
L'iniziativa ha subito acceso discussioni accese: c'è chi l'ha letta come un'ingerenza nel ruolo educativo delle famiglie, chi ha agitato lo spettro dell'ideologia "gender", e chi ritiene sia troppo presto affrontare certi argomenti a quell'età. Ma è proprio nei primi anni che, quasi senza che gli adulti se ne accorgano, cominciano a prendere forma i primi comportamenti di sopraffazione e gli stereotipi più radicati.
Fanpage ha intervistato la sindaca Silvia Salis per capire che cosa significhi davvero cominciare dalle materne e perché la prevenzione, in Italia, resti ancora l'aspetto più fragile e, al tempo stesso, il più osteggiato nella lotta contro la violenza di genere.
Il progetto parte dalle scuole dell'infanzia. Molti dicono che è "troppo presto", che sia "sconveniente", che certe cose riguardino solo la famiglia. Perché, secondo lei, è invece nei primi anni che si costruisce – o si previene – la cultura della violenza di domani?
Partiamo da un punto fermo: non c'è un'età sbagliata o un'età giusta per iniziare un percorso di educazione sessuo-affettiva. Le pagine di cronaca ci dicono che c'è un forte bisogno di parlare alle generazioni future, ma anche di lavorare con chi giovane non è più. Non possiamo certo aspettare che i ragazzi arrivino vicini alla maggiore età per parlare loro di rispetto o di consenso. Nessuno vuole sostituirsi alle famiglie: al contrario, vogliamo allearci con le famiglie per offrire strumenti e prevenire ciò che troppo spesso viene ignorato finché non è troppo tardi. In alcuni contesti, capita che i bambini e le bambine vivano proprio in famiglia l'esperienza di modelli sbagliati, di violenza o di prevaricazione. È compito della scuola e dell'amministrazione offrire loro uno sguardo diverso sul mondo, un'alternativa possibile. Un'amministrazione che non offre un'alternativa a chi vive in contesti complicati è un'amministrazione che ha fallito nella sua missione.
C'è chi agita lo spettro del "gender", chi sostiene che la scuola voglia sostituirsi alla famiglia, chi usa la paura per frenare qualsiasi forma di educazione sessuale. Lei cosa risponde?
La paura, non solo in questo contesto, è l'alleato peggiore in un percorso di evoluzione. La paura è quel sentimento, cavalcato ad arte da qualcuno, che ci spinge a pensare che il passato sia sempre meglio del futuro, che ‘si stava meglio prima'’. Qui stiamo parlando di educazione alle relazioni umane, di rispetto, di uguaglianza, di accoglienza. Chi vuole fermare tutto questo con lo spauracchio ideologico lo fa solo per non affrontare il problema o per chiamare l'applauso facile dicendo che c'è altro di cui occuparsi. Evitare il problema non lo fa sparire, lo rende solo più difficile e talvolta più tragico da affrontare quando esplode in tutta la sua drammaticità per le strade, nelle case, nei tribunali, nei pronto soccorso.
Ogni volta che si parla di affettività, emozioni e consenso esplode il panico morale, come se insegnare il rispetto ai bambini fosse una minaccia. Perché proprio questo tema sembra generare tanta resistenza?
L'educazione sessuo-affettiva mette in discussione modelli consolidati, talvolta tossici, che si basano su ruoli rigidi, sulla subdola prevaricazione e sul silenzio. Aiutare i bambini a crescere consapevoli, capaci di ascoltare e di accogliere, di rispettare l’altro significa mettere in discussione chi ha imposto regole morali o ideologiche senza nemmeno doverle giustificare: si è sempre fatto così. Come possiamo considerare una minaccia bambini e bambine che si aprono ai loro sentimenti o che cercano un'opportunità per sovvertire i modelli con cui sono cresciuti? Per noi è una speranza, la base per una società in cui violenza e prevaricazione non siano mai la risposta e in cui ciascuno possa essere sempre e semplicemente se stesso.
A Genova partirete con quattro scuole dell'infanzia, un'ora a settimana, 300 bambini. Se il progetto darà risultati positivi, siete pronti ad estenderlo a tutte le scuole comunali? E cosa serve, politicamente, perché l'educazione sessuo-affettiva diventi un diritto e non una semplice sperimentazione?
Sì, siamo pronti e siamo certi che il progetto andrà avanti e si estenderà ad altre scuole, ma naturalmente non potrà prescindere da un accordo e una condivisione con le famiglie. Per trasformare una sperimentazione in un diritto serve un cambio di prospettiva e serve capire finalmente che, quando parliamo di violenza di genere, parliamo di un problema strutturale che è andato ben al di là dell'emergenza legata ai singoli casi.
Serve una presa di coscienza nazionale, un governo che sia pronto a stanziare risorse stabili e a riconoscere l'educazione sessuo-affettiva come un diritto di tutti i bambini e le bambine: non un favore, un'eccezione o una fantomatica deriva ideologica. In una parola: serve coraggio. Che, non a caso, è l'antidoto alla paura di cui sopra.
Ieri il centrodestra ha bloccato il ddl sul consenso mentre la nuova fattispecie autonoma di femminicidio veniva approvata all'unanimità. Che lettura dà di questo doppio segnale? E cosa pensa della direzione che sta prendendo il Paese?
È lo specchio di un approccio sempre pronto alla repressione e meno coraggioso nella prevenzione. Da una parte si danno risposte punitive alla violenza, dall'altro si fa ancora fatica a compiere quel passaggio culturale necessario per prevenirla. È scoraggiante che ancora oggi, nel 2025, ci sia bisogno di ulteriori chiarimenti per mettere finalmente nero su bianco che se si dice ‘no' è ‘no'. Non possiamo continuare a combattere la violenza sulle donne solo dopo che è avvenuta. Lo stop di ieri ha fatto passare in secondo piano l'iniziale speranza suscitata dopo la simbolica stretta di mano tra la presidente Meloni e la segretaria Schlein. Ma i gesti simbolici si devono poi trasformare in politiche concrete, altrimenti restiamo qui a parlare solo di idee. I dati sui femminicidi e sulle violenze ci dicono che non possiamo più permetterci una politica che piange le vittime e non fa niente per cambiare le condizioni sociali ed economiche che le rendono vulnerabili. La violenza contro le donne è un ‘terrorismo' di prossimità, mette in pericolo metà della popolazione: come tale il governo lo deve gestire e affrontare. Servono misure di protezione e di prevenzione, serve una regia centrale, una legge organica che coordini giustizia, scuola, sanità, sicurezza e welfare. Come abbiamo fatto negli anni '90 con la mafia: se lo Stato capisce che un problema è strutturale, risponde in modo strutturale.