Cosa sta succedendo all’ex Ilva: “Il piano del governo rischia di causare migliaia di licenziamenti”

La crisi dell’ex Ilva – oggi Acciaierie d'Italia – è entrata in una fase decisiva e rischia di travolgere l’intera industria siderurgica nazionale, con buona pace dei proclami del governo Meloni sul "sovranismo" e il Made in Italy.
A Genova, dove nello stabilimento di Cornigliano lavorano 1.200 persone, i lavoratori sono in mobilitazione da ieri contro il nuovo piano dell'esecutivo, che prevede di fermare l’arrivo dei rotoli d'acciaio prodotti a Taranto e destinati alla trasformazione nel nord. Una scelta che metterebbe in ginocchio non solo il capoluogo ligure, ma anche i siti di Novi Ligure e Racconigi, bloccando di fatto l’unica produzione nazionale di banda stagnata – la latta – materiale strategico per la filiera alimentare e dell’imballaggio. In poche parole: se il piano del governo dovesse vedere la luce, migliaia di lavoratori e lavoratrici verrebbero licenziati in tutti i siti del nord Italia.

Intanto a Taranto si sciopera contro la chiusura delle cocherie, considerata un passo verso la fermata degli altoforni. Sullo sfondo, migliaia di posti di lavoro a rischio e un futuro industriale appeso alle trattative per la cessione del gruppo, tra cui quella con il fondo Bedrock. Ne abbiamo parlato con Stefano Bonazzi, Segretario Generale Fiom Cgil di Genova, per capire che cosa sta davvero accadendo e quali scenari si aprono ora.
Segretario Bonazzi, molte persone associano l’Ilva quasi esclusivamente a Taranto. Partiamo dalle basi: che cos’è l’ex Ilva di Genova e quale ruolo ha nella siderurgia italiana?
L’ex Ilva di Genova è uno dei grandi impianti siderurgici storici del Paese. In città oggi lavorano circa mille persone, che diventano 1.200 se includiamo anche il personale dell’amministrazione straordinaria. La produzione genovese è completamente a freddo: significa che qui non si fonde il minerale, ma si lavorano i coils, cioè i rotoli di acciaio che arrivano dall’altoforno di Taranto. La filiera del nord comprende Genova, Novi Ligure e Racconigi: tutto l’acciaio prodotto a caldo a Taranto viene trasformato in questi tre siti, e qui viene lavorato.
Che cosa si produce esattamente nello stabilimento di Genova?
Due tipi di prodotti: la banda zincata e la banda stagnata, che tutti conoscono come latta. Genova è l’unico impianto in Italia che produce latta. È un materiale centrale per l’industria alimentare e per l’imballaggio: le lattine, i barattoli del pomodoro, le scatolette che usiamo ogni giorno, ma anche il contenitore per le vernici. Dal punto di vista tecnico è un acciaio laminato e poi stagnato, indispensabile per un mercato nazionale molto importante.
E perché la produzione di latta è così strategica?
Perché l’Italia è il primo consumatore europeo di latta, soprattutto grazie all’industria delle conserve. Ogni anno importiamo centinaia di migliaia di tonnellate di banda stagnata proprio perché non ne produciamo abbastanza. Se chiude l'ex Ilva di Genova, chiude l’unico impianto nazionale in grado di realizzarla.
È paradossale, specie per un governo che parla di sovranità industriale, immaginare che l’Italia debba dipendere totalmente dall’estero per un materiale d’uso quotidiano e con un mercato interno così forte.
Eppure è quello che sta avvenendo…
Prima di tornare a Genova, ci aiuti a capire cosa sta accadendo a Taranto in queste ore. Anche lì si sta scioperando: ma perché?
L’ex Ilva è in amministrazione straordinaria da quando ArcelorMittal ha abbandonato la gestione. L’impianto di Taranto è l’unico che esegue il ciclo a caldo: gli altoforni trasformano il minerale in acciaio. Questo acciaio, a regime, dovrebbe poi essere inviato a Genova, Novi e Racconigi per la trasformazione. L’azienda ha una capacità teorica di circa otto milioni di tonnellate l’anno. Oggi però funziona un solo altoforno, e la produzione reale è scesa a un milione di tonnellate: un livello minimo, totalmente insufficiente a sostenere la filiera.
E scusi, cosa c'entra il governo con quello che accade negli stabilimenti ex Ilva?
Il governo aveva presentato settimane fa un piano industriale che, almeno nelle dichiarazioni iniziali, puntava a ricostruire una produzione da otto milioni di tonnellate all'anno, con un processo di decarbonizzazione: tre forni elettrici a Taranto e un forno elettrico a Genova. Quel piano è già stato accantonato. Oggi viene proposto un piano "temporaneo" basato sul cosiddetto ciclo corto.
Cosa significa?
Taranto produrrebbe coils e li venderebbe direttamente sul mercato, senza inviarli più agli stabilimenti del nord.
E quali sarebbero le conseguenze di questa scelta?
Conseguenze pesantissime. Se i coils non arrivano più a Genova, Novi e Racconigi, gli impianti del nord si fermano immediatamente. Nella riunione di martedì sera il governo lo ha detto in modo ufficiale. Ecco perché abbiamo proclamato lo sciopero. Nel frattempo anche Taranto sta protestando, perché lo stesso piano prevede la chiusura delle cocherie: sono impianti fondamentali, producono il coke necessario per far funzionare gli altoforni. Se chiudi le cocherie, chiudi l’acciaieria. La verità è che l’intero piano è, come hanno dichiarato le segreterie nazionali dei sindacati, un piano di morte industriale.

Quindi i mercati non mancano. L’Italia ha ancora bisogno di acciaio?
Il mercato c’è, eccome. Lo vediamo a Genova: i nostri prodotti sono richiesti, la latta in particolare. L’Italia, come dicevo, è il primo mercato europeo di banda stagnata. Se la produzione nazionale viene meno, il Paese dovrà importare tutto. È difficile capire perché si voglia rinunciare a un presidio industriale strategico proprio mentre si invoca la produzione nazionale. C'è anche un ministro del Made in Italy…
Se il governo deciderà davvero di fermare gli impianti del nord, che cosa accadrà a Genova?
Nell’immediato, un massiccio aumento della cassa integrazione. Ma sarebbe solo l’inizio. La fermata degli impianti non ha mai un carattere neutro: è una scelta industriale che porta, nel medio periodo, alla chiusura definitiva. Il rischio reale è la perdita di migliaia di posti di lavoro, non solo a Genova, ma anche a Novi Ligure e a Racconigi. Parliamo di una ricaduta che coinvolge l’intera filiera. Voglio essere chiaro: se il Governo ferma gli impianti fa una precisa scelta industriale che di fatto porta alla chiusura definitiva di quelle fabbriche.

In questa partita si inserisce anche Bedrock, uno dei fondi interessati all’acquisto di Ilva. Che cosa sta succedendo?
La procedura aperta dal governo ha messo in campo alcuni soggetti internazionali: Bedrock è uno di questi. Ha lasciato filtrare un’idea di ristrutturazione molto profonda del gruppo, con esuberi significativi. Ma non è affatto detto che sarà l’acquirente finale. Il governo sostiene che ci siano altri due potenziali soggetti, di cui però non sono stati comunicati i nomi.
Il sindacato chiede una presenza pubblica stabile. Perché?
Perché parliamo di un asset strategico nazionale: l’acciaio serve a tutta l’industria italiana. Noi chiediamo una partecipazione pubblica nella nuova società, non necessariamente una nazionalizzazione totale. Sarebbe una scelta in linea con il sistema industriale italiano: solo a Genova ci sono Leonardo, Ansaldo, Fincantieri, tutte realtà dove lo Stato è presente in modo importante. Non è un tabù, insomma, è la normalità. E soprattutto garantirebbe stabilità, investimenti e una visione di medio-lungo periodo che un fondo privato, da solo, non garantisce.
Anche perché questi gruppi utilizzano moltissimo acciaio. Penso, ad esempio, a Fincantieri.
Fincantieri è uno dei principali consumatori nazionali di acciaio. Avere una produzione interna, controllata e programmabile, è un vantaggio industriale enorme. Ma per farlo è necessario produrre acciaio, non chiudere gli impianti, come prospetta il Governo.
Che cosa accadrà ora? Quali scenari si aprono se il governo non riapre una trattativa?
La mobilitazione è aperta e non si fermerà. Per Genova abbiamo chiesto un incontro dedicato, e lo consideriamo indispensabile. Se il governo non avvia un confronto reale, la protesta proseguirà senza limiti. I lavoratori difendono il loro futuro, ma anche quello di un settore decisivo per il Paese. Non accetteremo un piano che porta alla chiusura degli stabilimenti del nord e al ridimensionamento di Taranto. Siamo di fronte a un bivio: rilanciare davvero la produzione o consentire lo smantellamento dell’industria siderurgica italiana. E noi non permetteremo che si imbocchi la seconda strada.