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Caso Open, la Consulta dà ragione a Renzi: “Procura non poteva acquisire email e whatsapp”

La Corte Costituzionale ha dato ragione a Matteo Renzi sulla questione del conflitto di attribuzione tra Senato e Procura di Firenze sul caso Open: i pm non potevano acquisire “messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare” senza l’autorizzazione preventiva di Palazzo Madama.
A cura di Tommaso Coluzzi
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La Corte Costituzionale dà ragione a Matteo Renzi sul conflitto di attribuzione tra Senato e Procura di Firenze. Parliamo del caso Open, e del fatto che i messaggi di "posta elettronica e whatsapp" debbano essere considerati come "corrispondenza". Nel sequestro di dispositivi elettronici che contengono dei dati informatici, se gli investigatori si trovano davanti a messaggi scambiati con un parlamentare della Repubblica devono immediatamente interrompere l'estrazione e chiedere alla rispettiva Camera l'autorizzazione a procedere. Così non è stato fatto con Matteo Renzi, che all'epoca era senatore (come d'altronde tutt'oggi). I suoi messaggi sono stati utilizzati nell'ambito dell'inchiesta sulla Fondazione Open senza autorizzazione.

"Avevo fortemente voluto che la vicenda finisse in Corte, non per il processo ma per un punto di principio e di diritto – ha scritto il leader di Italia Viva sui suoi social – Io sostenevo che il comportamento dei pm di Firenze violasse la Legge (e la Cassazione ci ha dato ragione 5 volte) e che violasse anche la nostra Costituzione. La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso, dandoci ragione e annullato alcuni provvedimenti dei pm di Firenze".

"Oggi è solo il giorno del trionfo del diritto – ha continuato Renzi – Verrà il giorno in cui la classe dirigente del Paese rifletterà serenamente su questa indagine assurda, nata contro di me, contro le persone che mi stanno vicine e soprattutto contro i fatti". Insieme al senatore, hanno esultato anche tutti gli altri componenti di Italia Viva, con messaggi sui social di sostegno al loro leader.

Nel testo del comunicato della Corte Costituzionale, in cui vengono spiegate le motivazioni della decisione, si legge:

La Procura non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e whatsapp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi, oggetto di provvedimenti di sequestro nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso parlamentare e di terzi. Tali messaggi sono stati ritenuti riconducibili alla nozione di «corrispondenza», costituzionalmente rilevante e la cui tutela non si esaurisce, come invece sostenuto dalla Procura, con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, ma perdura fin tanto che esso conservi carattere di attualità e interesse per gli interlocutori. Gli organi investigativi – ha precisato la Corte – sono abilitati a disporre il sequestro di "contenitori" di dati informatici appartenenti a terzi, quali smartphone, computer o tablet: ma quando riscontrino la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l'estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza per poterli coinvolgere nel sequestro. Ciò a prescindere da ogni valutazione circa il carattere "occasionale" o "mirato" dell'acquisizione dei messaggi stessi.

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