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In un mondo dove la violazione dei diritti umani è una consuetudine dolorosa, è nostro dovere trovare la forza di indignarci. Lo dobbiamo fare di fronte a immagini che giungono dai Territori Palestinesi Occupati, in particolare da Jenin, una città simbolo della resistenza all'occupazione israeliana.
La Cronaca di un'Esecuzione a Sangue Freddo
La sequenza dei fatti è chiara e agghiacciante: due uomini si trovavano all'interno di un garage, circondati dai soldati dell'esercito israeliano. L'intervento di una ruspa, che ne ha sfondato l'ingresso, li ha costretti a uscire. I due si sono arresi immediatamente, mani alzate, mostrando di essere disarmati, senza armi né ordigni esplosivi. Sono stati fatti sdraiare a terra, prima all'esterno e poi, di nuovo, all'interno del garage. In quella posizione, ventre a terra, sono stati uccisi a sangue freddo dai soldati, raggiunti da una scarica di colpi di fucili automatici.
Questo atto solleva una questione fondamentale: sparare a uomini disarmati e arresi è una scelta deliberata di omicidio.
Il velo mediatico e la crisi dimenticata
Questo non è un episodio isolato, ma la tragica normalità quotidiana nei Territori Occupati. Tutto ciò accade mentre il mondo sembra essersi distratto dopo l'attenzione mediatica sul genocidio di Gaza. Un genocidio che, pur non essendo mai terminato, pare essersi pacificato, almeno a livello mediatico, dopo la firma dei 21 punti di Trump. Ma la realtà sul campo è ben diversa.
Jenin è una città dalla storia travagliata, lo abbiamo raccontato la settimana scorsa in una delle puntate dal campo. Segnata da eventi cruciali. I suoi abitanti, soprattutto quelli provenienti dal campo profughi, hanno vissuto la Nakba, la catastrofe del 1948. La Naska, che in arabo vuol dire disastro e che indica i fatti del 1967, e, di recente, un nuovo sfollamento di massa avvenuto pochi mesi fa. Migliaia di persone dal campo profughi di Jenin sono state nuovamente costrette ad abbandonare le loro case. Ho avuto modo di incontrare donne che, dopo oltre 70 anni dalla prima volta, vagano per la Cisgiordania occupata, nuovamente profughe e senza dimora.
La richiesta di libertà per i prigionieri politici
L'indignazione non deve fermarsi alla denuncia, ma deve tradursi in una richiesta esplicita: la fine dell’occupazione della Palestina e la liberazione dei cosiddetti prigionieri politici palestinesi. Si tratta di persone private della libertà, spesso a seguito di processi farsa o, ancor più frequentemente, senza alcun processo, attraverso un fermo amministrativo che può essere prorogato per anni.
In queste ore è stata rilanciata la campagna per la liberazione di Marwan Barghouti, il leader carismatico arrestato nell'aprile del 2002 durante la Seconda Intifada. All'epoca, i soldati israeliani lo definirono "la testa del serpente", credendo di poter sedare la rivolta popolare. Barghouti è ancora in carcere, ma resta un leader influente, sebbene umiliato (recentemente anche da Ben-Gvir), spesso picchiato e costretto a vivere in uno stato di costante malnutrizione, condizione che accomuna i circa 10.000 prigionieri politici palestinesi. La campagna ne chiede la liberazione.
"Mio padre è un leader che unisce, l'unico documento firmato da tutte le fazioni palestinesi è stata redatto da lui in carcere" racconta a Fanpage.it Sharaf, il figlio che coordina la campagna per la sua liberazione. "C'è bisogno di leader che possano trattare aggiunge nell'intervista".
Noi di Fanpage oltre all'intervista con Sharaf Barghouti abbiamo incontrato degli ex prigionieri palestinesi e i loro avvocati, siamo stati anche a Jenin nelle scorse settimane per documentare la condizione dei prigionieri politici. Stiamo lavorando ad approfondimenti, ma intanto oggi, torniamo qui per raccontare questa storia, per indignarci e per chiedere la liberazione di questi prigionieri e il rispetto dei diritti umani.
Con Scanner, oggi, partiamo da qui.