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A Gaza la morte avviene in diretta. Tutto è stato ripreso: il momento in cui i carri armati hanno lanciato il primo colpo sull’ospedale Nasser di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, e poi quando l’hanno preso di mira di nuovo, uccidendo anche chi era arrivato a prestare soccorso. Una ventina di vittime in tutto, tra cui cinque giornalisti. Hussam al-Masri, fotoreporter per Reuters; Mariam Abu Daqqa, che lavorava per The Independent Arabic e Associated Press; Moaz Abu Taha e Ahmed Abu Azi, entrambi freelance che collaboravano con varie testate, e Mohammad Salama di Al Jazeera.
È una tecnica militare subdola e atroce, quella del double tap. Colpire un luogo e aspettare qualche minuto prima di colpirlo la seconda volta in modo che si siano già radunati i soccorritori, i giornalisti, chiunque arrivi per dare un mano a cercare i feriti sotto le macerie. Le persone vengono attirate lì, dove si sà che si colpirà ancora. Lo si fa per fare una strage. E non c’è giustificazione che tenga.
Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ci ha provato comunque a lavarsene le mani. Ha detto di essere rammaricato per il “tragico incidente" – sì, lo ha definito così – e ha pure detto di apprezzare il lavoro dei giornalisti, del personale medico e di tutti i civili a Gaza. Le Idf, le Forze di difesa israeliane, da parte loro, hanno detto che non attaccano di proposito i civili e che ci sarebbe un'indagine in corso. Hanno ammesso il primo attacco all’ospedale dicendo di averlo rivolto a una camera di Hamas, usata per spiare gli spostamenti delle truppe apparentemente. In realtà era una camera della posizione fissa di Reuters, l’agenzia britannica, usata per mostrare in diretta quello che accade nella Striscia di Gaza. Per il secondo attacco, comunque, nemmeno i militari sono riusciti a pensare a una spiegazione, più o meno plausibile che fosse.
L’ospedale Nasser dovrebbe essere un luogo protetto. Dentro ci sono medici e pazienti, ed è cosa nota che lì intorno ci siano anche diversi giornalisti, che lavorano nei pressi dell’ospedale. Erano lì per raccontare le storie dei bambini malnutriti, della carestia che non fa che peggiorare. Per raccontare il lavoro instancabile dei medici. Tutti denunciano lo stesso: Israele ci ammazza per zittirci, per cancellare le testimonianze, per eliminare le prove del genocidio. Ed è paradossale, ma è così, che ora questo accada alla luce del sole, letteralmente in diretta. Secondo la Foreign Press Association dal 7 ottobre sarebbero 245 i giornalisti uccisi a Gaza. Altre fonti parlando di 193 vittime tra i cronisti. Chiaramente, con questi livelli di devastazione, è difficile avere contezza precisa del numero di morti. Però in ogni caso, sono tutti d’accordo nel dire che mai un conflitto è stato tanto pericoloso per chi fa questo mestiere. In ogni caso, sono tutti d’accordo nel dire che 200 giornalisti uccisi non sono un danno collaterale, non sono un incidente.
Alcune settimane fa un’inchiesta di +972 Magazine e Local Call, due media israeliani, ha rivelato come tra le Idf ci sia anche un’unità speciale, chiamata Legitimization Cell, che ha il compito proprio di andare a cercare informazioni sui giornalisti di Gaza, per capire chi e in che modo legarli ad Hamas, in modo da rispondere alle accuse della comunità internazionale. Secondo alcune fonti riportare in questa inchiesta, questa unit non sarebbe stata attivata per ragioni di sicurezza, ma più che altro di immagine e di pubbliche relazioni. Cioè per ripulire l’immagine di Israele e fornire una narrativa alternativa in risposta alle critiche internazionali sulle uccisioni dei giornalisti. Le fonti citate sono fonti di intelligence e raccontano un pattern preciso: ogni volta che la stampa internazionale denunciava come i giornalisti venissero silenziati a Gaza, l’unità si attivava per trovare il modo di legare anche solo un cronista ad Hamas, in modo da far sembrare più accettabile l’accaduto, in modo da far sembrare l’uccisione di un giornalista quella di un terrorista.
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