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A Udine ci sono stati scontri per la partita di calcio con Israele: il boicottaggio ha senso?

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Dopo la partita tra la nazionale italiana e quella israeliana che si è giocata ieri sera a Udine, e le forti proteste che hanno attraversato la città, torniamo a chiederci: Israele dovrebbe essere escluso dalle competizioni sportive internazionali? E si dovrebbe fare lo stesso con i festival artistici, con le iniziative culturali? Dovremmo boicottare le università, così come le aziende? Dipende: c’è chi pensa che un boicottaggio su larga scala sia un modo efficace di fare pressione sul governo israeliano – una pressione che rimane necessaria dopo gli accordi in Egitto, per porre fine all’occupazione e all’impunità – però c’è anche chi non è d’accordo e dice che azioni di questo tipo dovrebbero essere quantomeno selettive, altrimenti si rischia di andare a isolare anche quella parte di Paese più critica verso Netanyahu e i suoi ministri. Quella parte di Paese con cui bisognerebbe dialogare per costruire un futuro di pace.

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Le proteste per la partita con Israele a Udine

Italia contro Israele, la partita per la qualificazione ai mondiali di calcio del prossimo anno è finita con un 3 a 0. Il punto però non è il risultato. Il punto è che, secondo molti, quella di ieri è stata una partita che non si sarebbe mai dovuta giocare, perché la nazionale israeliana andava esclusa da ogni tipo di competizione internazionale. E infatti non sono mancate le tensioni dentro lo stadio, ma soprattutto gli scontri al di fuori. Migliaia di manifestanti si sono dati appuntamento in centro a Udine e sebbene le proteste fossero in grandissima parte pacifiche, un gruppo di persone ha tentato di sfondare il cordone della polizia per avvicinarsi allo stadio ed è stato caricato dagli agenti. In tutto questo un giornalista è anche rimasto ferito ed è stato portato in ospedale in condizioni abbastanza critiche.

Alla fine la partita c’è stata, perché né la Uefa né la Fifa hanno preso decisioni in merito, ma il dibattito rimane. Da due anni infatti il movimento per il boicottaggio di aziende, enti e organizzazioni israeliane, che esiste in realtà da molto più tempo, ha preso una piega mainstream: così come le persone hanno cominciato a scendere in piazza in massa per chiedere la fine del genocidio palestinse, allo stesso tempo hanno anche iniziato a fare scelte diverse rispetto ad alcune abitudini, rivedendo ad esempio gli acquisti di tutti i giorni, o appunto, i rapporti accademici o aziendali.

La mobilitazione dal basso

Due anni di genocidio e le pressioni dal basso si fanno sentire. Pressioni per bandire Israele dalle competizioni sportive, appunto, per tagliare i rapporti con le sue università, per recidere quelli con le sue aziende, per estromettere il Paese dagli eventi internazionali, che si tratti di festival del cinema o della musica, come l’Eurovision. Insomma, pressioni per replicare quel boicottaggio internazionale che c’è stato in passato nei confronti del Sudafrica e che ha effettivamente contribuito alla fine del regime di apartheid. Nel caso di Israele, però, ci sono opinioni contrastanti.

Una premessa: queste iniziative risalgono a ben prima del 7 ottobre. E infatti sostengono che la pressione non dovrebbe allentarsi ora, solo perché sono stati firmati degli accordi per il cessate il fuoco. Il punto non riguarda solo i bombardamenti. Bisogna continuare a mobilitarsi per la fine dell’occupazione, delle colonie illegali in Cisgiordania, delle violazioni dei diritti umani che continuano a rimanere impunite, dell’assedio marittimo, aereo e terrestre di Gaza.

Il "BDS Movement": Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni

Il BDS Movement, che sta per “boicottaggio, disinvestimento, sanzioni”, è un movimento palestinese nato nel 2005, quindi vent’anni fa. È un’iniziativa non violenta, che si inspira esplicitamente al movimento anti-apartheid sudafricano, e che punta a isolare e mettere sotto pressione il governo israeliano affinché rispetti il diritto internazionale, affinché metta fine all’occupazione illegale della Palestina e permetta ai rifugiati palestinesi di tornare alle loro case. Negli ultimi anni, dopo il 7 ottobre, sempre più persone e soggetti hanno aderito, facendolo diventare un movimento di massa globale a tutti gli effetti e ispirando molte altre campagne.

E qui veniamo al nostro esempio iniziale, l’esclusione di Israele dalle competizioni sportive internazionali. Qualche mese fa, a maggio, il commissario europeo per lo Sport aveva preso posizione per la prima volta su questo argomento, raccontando al quotidiano Politico che non si dovrebbe lasciare alcuno spazio, nello sport, a chi non condivide i nostri valori. Un altro modo per dire che sì, che Israele avrebbe dovuto essere bannato da campionati e tornei. Nel calcio iniziative di questo tipo hanno avuto parecchia risonanza: nel 2024 la federazione calcistica palestinese aveva fatto una richiesta specifica alla Fifa, poi c’è stata la campagana “Show Israel the Red Card”, poi quella “Game Over Israel” e molte altre. Nessuna di queste ha avuto particolare successo, però sicuramente hanno portato il dibattito a un pubblico ampio.

Ma appunto, iniziative di questo tipo non hanno riguardato solo il mondo dello sport. Qualche mese fa centinaia di scrittori e intellettuali, anche diversi nomi di fama mondiale come Zadie Smith e Ian McEwan, hanno pubblicato una lettera aperta in cui denunciavano come Israele stesse commettendo un genocidio e annunciavano un boicottaggio di enti e istituzioni culturali. Poi è arrivata una mobilitazione simile dal mondo del cinema, con circa 4,500 lavoratori del settore che hanno firmato una petizione per boicottare i film israeliani ai festival. E ancora, c’è una fortissima discussione in corso per quanto riguarda l’Eurovision e la partecipazione di Israele.

Come non normalizzare il genocidio

Tutte queste campagne partono da un assunto preciso: non dobbiamo normalizzare il genocidio. Fintantoché continueremo ad avere rapporti normali con Israele – che non sono solo rapporti politici ed economici, ma che passano anche attraverso le competizioni sportive, gli eventi culturali, i rapporti accademici, l’intrattenimento – di fatto stiamo dicendo che non abbiamo problemi con il massacro, con le bombe, con l’occupazione.

Mantenere rapporti normali con un Paese che sta commettendo un genocidio, anche se riguardano solo lo sport, la musica o il cinema, normalizza quel genocidio. Il boicottaggio, così come le sanzioni e il disinvestimento, sono tutti strumenti per isolare Israele e per fare pressione sul suo governo, per costringerlo a cambiare rotta. E possono essere efficaci, come ci dimostra il caso sudafricano. Il Sudafrica è stato bannato dalle Olimpiadi nel 1964, gli artisti e gli intellettuali per anni hanno rifiutato di esibirsi o di pubblicare il loro lavoro nel Paese, i consumatori hanno smesso di comprare prodotti sudafricani. Alla fine l’isolamento internazionale crescente, dato anche da azioni di questo tipo, ha avuto un peso importantissimo nel crollo dell’apartheid.

Ha senso il boicottaggio generale?

C’è però anche un’altra faccia della medaglia ed è quella su cui si concentra chi sostiene che il boicottaggio generale non sia efficace, almeno per quanto riguarda lo specifico caso israeliano. Il punto è che mentre la società civile, il mondo dell’arte e delle cultura, usano il boicottaggio come arma di pressione contro il governo israeliano, gli altri governi di fatto continuano a sostenere Netanyahu e i suoi. Allora la domanda è: queste campagne riescono veramente nel loro obiettivo o finiscono per isolare solo quelle componenti della società israeliana che magari erano anche le più critiche nei confronti del governo?

Ad esempio, il boicottaggio delle università: è davvero qualcosa che incide e mette in difficoltà il governo, oppure finisce per silenziare le voci che più di tutte, all’interno di Israele, denunciavano l’occupazione e l’impunità? Oppure finisce per isolare quelle figure con le quali bisognerebbe invece lavorare fianco a fianco per costruire un futuro di pace?

Sicuramente non è una questione semplice e forse ragionare per assoluti non serve molto. Ciò che però è innegabile è che i boicottaggi e la mobilitazione dal basso sono un mezzo, che abbiamo a disposizione come società civile, per prendere posizione e provare a cambiare le cose. Soprattutto quando i governi non lo fanno.

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