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Oggi su Streghe parliamo del femminicidio di Cinzia Pinna, e del modo irrispettoso e – sì, lo dico senza mezzi termini – violento in cui è stato trattato dalla stampa italiana. Perché se di lui sappiamo vita e miracoli (soprattutto quest’ultimi), di lei sappiamo molto poco. E quelle poche cose che sappiamo non sono state raccontate in un’accezione positiva. È ora di dire basta.

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A me il lavoro che faccio piace molto. Sin da piccola ho sempre voluto essere una giornalista, e crescendo non ho cambiato idea. Ho sempre inteso questo non tanto come un mestiere quanto una ‘vocazione’ (santa maria piena di grazia amen) e mi sono sempre immaginata penna in mano a smascherare le ingiustizie del mondo. Insomma, Don Chisciotte contro i mulini a vento. Le ingiustizie del mondo rimangono lì dove sono, ma la battaglia contro i mulini a vento è diventata il triste quadro che mi trovo davanti ogni volta che sui giornali si parla di violenza di genere. Ed è in questi momenti che mi vergogno della categoria di cui faccio parte.

Cinzia Pinna era una donna di 33 anni uccisa da un uomo che conosceva, Emanuele Ragnedda. Non è ancora chiaro che relazione ci fosse tra i due, ma sembra verosimile l’ipotesi che si sia trattato di un femminicidio. Non si esclude che lei si sia opposta a un rapporto sessuale, e che lui per questo abbia reagito sparando. Dopo aver gettato il corpo della donna nella tenuta di famiglia, Ragnedda ha continuato la sua vita di sempre. Fino a che non l’hanno beccato e arrestato. A quel punto ha confessato.

Sin da subito abbiamo assistito a una narrazione totalmente fuori controllo. Emanuele Ragnedda è stato descritto come ‘genio’, ‘imprenditore di successo’, ‘l’uomo del Vermentino’ da 1.800 euro a bottiglia, ‘viaggiatore’ e chi ha più ne ha più ne metta. Di lei, inizialmente non si è detto nulla. Poi si è cominciato a farlo. All’immagine di lui con il Vermentino in mano è stata contrapposta quella di lei fuori da un locale con una birra, lui ‘il genio’, lei ‘fragile’, ‘con dipendenze’. La vita di Ragnedda ricca e patinata, quella di Pinna con ‘zone d’ombra’. Era una ‘ragazza solare’, ma ‘quando non beveva’, sussurra ‘qualcuno’. Il contesto economico e sociale usato per farci empatizzare con il femminicida, mentre vi è totale assenza di dignità e complessità per come viene descritta la figura di Pinna. Che diventa vittima di serie B perché non ‘perfetta’, la sua morte considerata meno importante di quella di altre donne che non hanno infranto il bon ton dei femminicidi.

Mi perdonerete se vi infrango i sogni, ma la vittima perfetta non esiste.

Ho parlato di narrazioni e stereotipi con la pedagogista Alessia Dulbecco, autrice del libro per Edizioni Tlon ‘Si è sempre fatto così’. “Di Pinna si è parlato come di una ragazza fragile’, ‘allontanata dalla famiglia’, e addirittura — cito testualmente — ‘quando beveva diventava un’altra’”, mi spiega. “Di lei questo hanno detto, mentre di lui abbiamo uno spaccato completo della sua vita: la villa, i viaggi in aereo per andare dalla mamma, il vino. Questo tipo di racconto però, non dice nulla del problema vero. Non è che ‘lei aveva una dipendenza’, ‘si sono incontrati’, ‘è successo qualcosa che non doveva succedere’. No. È un problema sistemico. Non riguarda quelle due persone nello specifico. Se continuiamo a tenere la narrazione su fatti personali che riguardano solo le due parti in causa, perdiamo di vista completamente quello che dovrebbe essere il compito del giornalismo, o comunque di chi fa informazione: cioè, far emergere il contesto, la cornice sistemica. Parlare solo di lei come la ‘povera ragazza’  a prescindere dal suo status, da quello che fa, dall’età, e di lui, che è sempre o un genio (se fa l’imprenditore), o un pericoloso killer (se invece è povero), fa perdere la visione d’insieme. Perché poi c’è anche questo: quando la persona coinvolta non vende vini a 1.500 euro a bottiglia, la narrazione cambia, diventa molto più dura nei suoi confronti”.

Non è la prima volta: spesso quando leggiamo le cronache sui femminicidi, sembra di assistere a tragedie isolate, casi che coinvolgono due persone, i cui drammi e le cui esistenze sono scandagliati pezzo per pezzo. Momenti di vita privata, fragilità, esistenze vengono messe in piazza, senza però riflettere che non stiamo assistendo a una pièce teatrale. I femminicidi non sono una serie televisiva, non si possono raccontare in questo modo, indugiando su particolari morbosi e soffermandosi sulle vite imperfette delle persone. Si rischia di perdere il quadro d’insieme: ossia che stiamo parlando di un fenomeno strutturale, non di casi isolati dovuti a devianze personali. Non siamo di fronte a un dramma personale, ma a un problema sociale.

La violenza di genere è un fenomeno strutturale – continua Dulbecco -, non una tragedia tra due individui per un ‘torto subito’. Pensiamo ai lavoratori licenziati: la perdita anche ingiusta di un lavoro non si conclude praticamente mai con un omicidio. Eppure anche in questi casi c’è un torto subito. Spesso la motivazione data nei femminicidi è stata appunto: ‘Mi ha fatto un torto, è successo qualcosa’. E allora dobbiamo chiederci: perché invece, ogni volta che una donna entra in relazione con un’altra persona — partner, ex, conoscente — la probabilità che finisca non la relazione, ma la sua stessa vita, è così alta? È questo il problema. E continuando a parlare di gelosia, o di ‘difesa’, continuiamo a banalizzare. Che poi, anche solo fisicamente, la storia del ‘mi sono difeso’ è inascoltabile, soprattutto considerando la disparità fisica tra lui e lei. L’ultima volta che ho sentito una cosa del genere era per il femminicidio di Marie Trintignant, la compagna del cantante dei Noir Désir, nei primi anni 2000. Anche lei era molto esile. È ridicolo continuare a proporre questo tipo di giustificazioni, morbose e tossiche”.

Per Dulbecco, in questo come in altri casi, “si schiaccia tutto sulla colpevolizzazione della vittima, finendo per embatizzare con l’uomo ‘bravo’, ‘genio’, ‘imprenditore di successo’. Mentre lei, in fondo, ‘se l’è cercata’. E se non se l’è cercata lei, magari è colpa dei suoi, che l’hanno allontanata. Anche questo messaggio è emerso ieri: era una ragazza libera, ma la famiglia l’aveva allontanata. Non hanno detto perché, ma anche solo il fatto di dirlo suggerisce una narrazione precisa. Il sottinteso è: ‘Non aveva una rete’, quindi ‘vedi com’era problematica’. Come se chi si allontana dalla famiglia sia per forza sbagliato. È un loop da cui è difficilissimo uscire. E faticosissimo, perché purtroppo i femminicidi sono all’ordine del giorno. Se la lettura è sempre questa… allora tanto vale parlare del vino da 1.500 euro, almeno evitiamo l’ennesima vittimizzazione post mortem. Lo dico sarcasticamente, ovvio. Ma davvero: se dobbiamo continuare a sentirci dire che il problema era lei, allora cambiamo proprio argomento”.

Prima di Cinzia Pinna ci sono state Carol Maltesi, Elisa Pomarelli, Chiara Ugolini, Denisa Maria Paun e tutte le altre. Raccontare i femminicidi non infangando le vittime sembra sia impossibile. Al momento uscire da questo modello binario e moralista sembra più complicato del previsto. “È un ciclo di Sisifo. Un Samsara mediatico – conclude Dulbecco -. Continuiamo a reiterare lo stesso schema: prima l’attenzione su di lui, buono o cattivo a seconda dei casi, poi su di lei, che è o una santa o una dannata. Se la donna uccisa è ai margini della società, ha una vita precaria, allora se ne parla come di una ‘tossica’, una ‘poveretta’… e nulla cambia. Mi chiedo perché non si voglia cambiare lettura. Perché si cerchi la tragedia. La storia alla Romeo e Giulietta. Senza vedere la realtà, che invece tocca corde molto più profonde, sociali. E modificare qualcosa a questo livello è durissimo: è come muovere un pachiderma che protegge sé stesso”.

Il compito dei media non può essere quello di continuare a riprodurre modelli violenti e contribuire a rafforzare gli stereotipi. Serve un cambio di passo, una presa di coscienza. Dobbiamo abbandonare il sensazionalismo, abbiamo una responsabilità sociale.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi del contenuto di questa settimana. Se lo ritieni importante, aiutami a diffondere questo lavoro: non solo condividendolo, ma anche parlandone a scuola, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro. Se hai segnalazioni da fare, vuoi raccontarmi la tua esperienza, o pensi ci sia un argomento su cui è necessario fare luce, scrivimi a streghe@fanpage.it.

Ci saremo anche dal vivo al Rumore Festival di Fanpage.it, in programma i prossimi 4 e 5 ottobre a Roma! Sabato alle 11.55, all'Acquario Romano ci sarà un panel dedicato proprio alla lotta al patriarcato, in cui discuterò di questi temi insieme a colleghe ed esperte: ci si iscrive a questo link

Ci sentiamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.

Ciao!
Natascia Grbic 

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Femminicidi, misoginia e cultura dello stupro dominano la nostra società, intrisa di odio verso le donne. La "caccia alle streghe" non è un fenomeno così lontano nel tempo, perché tra istituzioni indifferenti e media inadeguati o complici, gli uomini continuano ad ammazzare le donne quando non riescono a dominarle.  È ora di accendere i nostri fuochi e indirizzarli dove non si voleva guardare: Streghe è il nostro Osservatorio sul patriarcato, il nostro impegno per cambiare il modo in cui si raccontano le storie alla base di una società costruita a misura di uomo.

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