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Oggi voglio parlare di una cosa che mi sta a cuore, anche perché mi ha sempre provocato molto fastidio. Sto parlando delle influattiviste, e di come il femminismo sia stato usato per alimentare il proprio personal branding, in una deriva individualista funzionale solo ad alimentare il proprio potere.
Negli ultimi giorni uno degli argomenti più discussi e chiacchierati è quello delle chat Whatsapp tra Carlotta Vagnoli, Valeria Fonte e altre influencer del circuito femminista di Instagram. Stralci delle conversazioni sono state pubblicate da Selvaggia Lucarelli su Il Fatto Quotidiano, sollevando un polverone mediatico nei confronti delle influattiviste, accusate di mostrarsi in un modo (sui social), ma nella realtà di essere tutt’altro.
Attenzione, big disclaimer: non entrerò nel merito del se è giusto o sbagliato aver pubblicato quelle chat. Non è quello di cui mi interessa parlare in questa newsletter, non è il focus del mio discorso. Senza contare che, da brava militante dei centri sociali, il piglio giustizialista non mi ha mai appassionato, quindi non mi ritengo la persona adatta a fare dissertazioni di questo tipo. E tu mi dirai, di che vuoi parlare allora? Di femminismo, di pratiche quotidiane e collettive, di mani che si stringono e non si lasciano andare in nessun caso. Di lotta come azione quotidiana, di sorellanza, di famiglia che ti scegli. Di cura. Quella vera.
Una volta mi piaceva molto usare i social. Era prima che mi hackerassero il profilo, che perdessi tutti i followers (non erano molti, ma come diceva mia nonna, meglio di un calcio in culo), tutte le foto e soprattutto la voglia di ricostruirlo e perderci tempo. Non ho mai però usato molto Instagram, di cui mi fregava il giusto e che ancora oggi uso principalmente quando mi ricordo per delle cose di lavoro. Quando ci capitavo sopra, notavo però con stupore che c’erano account radicalissimi di persone che usavano lo stesso linguaggio del movimento transfemminista, lanciavano appuntamenti, si facevano foto a manifestazioni con cartelli in mano, venivano invitate a festival e presentazioni, scrivevano libri. Ma, soprattutto, dettavano la linea.
E io solo una cosa pensavo: “Ma queste, chi cazzo sono?”.
In anni di rapporti, di assemblee in giro per l’Italia e l’Europa su pullman scassati a dieci euro andata e ritorno, di campagne e cortei nazionali, di picchetti, manifestazioni, di nottate passate a dormire nei posti occupati e nelle palestre delle scuole, io queste persone non le avevo mai viste. Non solo, non avevo nemmeno mai sentito il loro nome. E attenzione, non parlo solo di Fonte, Vagnoli, e gente che ha preso parte a quelle chat. Parlo di tante persone che negli anni sono diventate incredibilmente punti di riferimento: invitate in televisione, intervistate dai giornali, chiamate a parlare nei luoghi istituzionali come voci autorevoli e rappresentative del movimento femminista. Persone con un potere immenso, capace di distruggere chiunque con una shitstorm o un call out lanciato a piacere.
E proprio di call out si parla in quelle chat. Facciamo chiarezza: il call out è uno strumento che è stato usato dal movimento femminista in passato. Pensiamo solo al #MeToo o al caso di Harvey Weinstein. Ma è uno strumento delicato, che se usato in modo arbitrario o solo per solleticare lotte di potere, è devastante. Può distruggere delle vite. Ed è incredibile vedere come un circoletto di poche persone che esiste solo nella sfera di Instagram riesca a ergersi a giudice e carnefice, decidendo chi debba essere distrutto e chi salvato, secondo una logica puramente personalistica. Questa è una lotta di potere che con il femminismo non ha nulla a che fare. Il femminismo non giudica, non punisce, non cancella le persone. Costruisce, include, apre spazi. È responsabilità collettiva, non logica individuale. E per questo è più complicato. I deliri di onnipotenza non vi possono trovare spazio.
Il femminismo è nelle piazze, nei centri antiviolenza, negli occhi che si guardano e ridono. Nelle mani che si sorreggono, nella cura collettiva. È pratica e azione quotidiana. Non è estetica da post social, non è una bio su Instagram, non è una caption radicale. Ma soprattutto non è il circoletto che decide delle sorti altrui. Non è questione di purezza, di autenticità, non è giocare a chi è più o meno femminista. Il punto è politico: negli ultimi anni si è cercato di svuotare di senso questa parola, trasformandola in linguaggio da marketing, buona per magliette e cappellini. È stata neutralizzata per poter essere più comprensibile, addomesticata, vendibile. Per dirla con le parole di Olúfẹ́mi O. Táíwò, è diventata una ‘forma di cattura delle élite' tramite cui un sottogruppo privilegiato ha utilizzato la sorellanza per monetizzare, costruire carriere, perseguire obiettivi individuali.
Le cosiddette influattiviste – un fenomeno che, ci tengo a precisare, va ben oltre Carlotta Vagnoli e Valeria Fonte – usano il femminismo come una leva di posizionamento. La loro immagine è costruita intorno a quella narrazione: è un capitale simbolico usato per costruirsi una carriera, un’autorità, per posizionarsi e fornire una narrazione di sé efficace ad alimentare il proprio potere. E così il femminismo diventa un marchio personale, il ‘partire da sé’ usato in modo strumentale per rimanere su di sé. La collettività viene paventata nei discorsi, nei post e nelle stories, ma è tutto fondato sul proprio io. Non c’è sorellanza, c’è competizione. È l’essenza stessa della performance capitalista. È pura estetica, non trasforma niente. Alimenta solo se stessa.
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Ci sentiamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.
Ciao!
Natascia Grbic