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Nel campo delle scienze sociali c’è un fenomeno noto come effetto Rosenthal, o effetto aspettativa, che serve a definire il modo in cui le convinzioni che si hanno su un determinato fatto possano contribuire a determinare il fatto stesso. È un fenomeno che può riguardare sia il soggetto che prende parte a un esperimento (che ha la tendenza a compiacere lo sperimentatore), sia l’osservatore dello stesso, che ha aspettative e convinzioni che possono finire per influenzare i risultati finali. Ecco, io do la colpa all’effetto Rosenthal ogni volta che leggo una delle rarissime interviste che Giorgia Meloni decide di rilasciare a qualche giornalista. Per quanti sforzi si possano fare per contestualizzare o caricare di significato i singoli passaggi, per quanto si possano assumere punti di osservazioni differenti, la sensazione è sempre la stessa: oltre la propaganda e la narrazione vittimista, la presidente del Consiglio non dice mai nulla. Non dà una notizia, direbbero i colleghi. Non fa capire mai i suoi reali pensieri, direbbero gli analisti di lungo corso.
Tutta questa premessa per introdurre il tema di oggi, appunto l’intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato al Time, magazine che da tempo la segue con grande attenzione e che le ha già tributato omaggi per la sua ascesa politica. È un colloquio molto interessante, realizzato da Massimo Calabresi ormai qualche settimana fa e pubblicato nel primo pomeriggio del 24 luglio (del resto, non c’era alcuna necessità di agganciarla all’attualità, come vedrete).
Il racconto si apre con un grandissimo classico: il piagnisteo sull’accusa di “fascismo” che i cattivoni le rivolgerebbero senza motivo. “C’è qualcosa del fascismo che la mia esperienza le ricorda, riguardo a ciò che sto facendo al governo?”, chiede la presidente del Consiglio al giornalista di Time alla fine dell’intervista. Il collega, giustamente, glissa, spiegando poi ai suoi lettori come, se è vero che il fascismo è “un tema da cui non riesce a sottrarsi”, Meloni abbia “spiazzato i suoi detrattori”, perché da quando è al governo ha “adottato posizioni centriste” e in campo internazionale “si è comportata come una conservatrice pragmatica e non come una rivoluzionaria di destra”, muovendosi “abilmente per ricucire i rapporti tra USA e Ue durante il mandato di Trump” e riuscendo a conquistare la stima di tanti leader mondiali. Al contempo, però, aggiunge il giornalista “ha un’agenda che richiama quella di altri leader autoritari sulla cresta dell’onda: rafforzare il potere esecutivo, limitare la libertà dei media, ampliare il controllo sulla magistratura, limitare alcune forme di espressione del dissenso e colpire gli immigrati irregolari”.
Al di là delle opinioni (sono molto d'accordo con il fatto che Meloni abbia mantenuto un approccio prudente in campo economico, meno che sia stata efficace come ponte con la nuova amministrazione americana, di cui è più che altro uno strumento), quella sollevata è una questione molto interessante perché ci consente di fare qualche considerazione su un aspetto cardine della strategia comunicativa di Meloni, mutuata dalla destra americana. Quando si ha a che fare con un argomento molto delicato e potenzialmente dannoso, la tecnica è molto semplice: si assume un punto di osservazione volutamente paradossale, enfatizzando le critiche più radicali o iperboliche, estraendo dal contesto, banalizzando e assolutizzando le critiche più centrate ed efficaci, per poi incardinare l’intera discussione sul binario vittimista.
La questione “fascismo” è paradigmatica.
Nessun osservatore di buonsenso crede che con Giorgia Meloni torneranno le camicie nere, l’olio di ricino e il manganello, il confino per gli oppositori politici e via discorrendo. Non è del fascismo di ottanta/novanta anni fa che siamo preoccupati. Quello di cui si discute, semmai, è la matrice culturale e storica del partito di Giorgia Meloni. È la persistenza di concetti e idee mutuati dal fascismo nella nuova destra italiana (e non solo), che finisce per incidere sulla proposta politica e culturale dei partiti che sono al governo del Paese. È la tensione verso lo svuotamento di senso e valore delle istituzioni, verso l’identificazione nazione-leader-popolo, verso il rafforzamento dell’esecutivo a danno dell’equilibrio fra i poteri. È la de-storicizzazione dei fatti del Ventennio, testa di ponte per la revisione in chiave nostalgica del periodo, come se il fascismo non fosse stato che una specie di “bonapartismo in camicia nera”. È l'ampliamento della finestra di Overton grazie allo sdoganamento di concetti e pratiche per anni relegate ai margini del dibattito politico. È l'impreparazione degli italiani, devastati dal lungo processo di destrutturazione culturale che va avanti da decenni, nel riconoscere il "nuovo volto" del fascismo.
Dicevamo, la tecnica di Meloni funziona davvero. Nella misura in cui le consente di eludere le questioni più spinose e costringere gli interlocutori a scendere su un terreno truccato. Un esempio paradigmatico lo fornisce il modo in cui ha gestito le conseguenze della nostra inchiesta Gioventù Meloniana, che ha ormai compiuto un anno. Di fronte alle inequivocabili immagini realizzate dal team Backstair di Fanpage.it, che raccontavano azioni e pensieri dei militanti della giovanile del suo partito, la presidente del Consiglio ha adottato esattamente questo approccio. Ha sbrigativamente e genericamente condannato “pochi nostalgici”, dicendo che “non c’è spazio in Fdi per razzismo e antisemitismo”. Ha presentato l’inchiesta giornalistica come una sorta di killeraggio mediatico, usando il vittimismo come arma per ribaltare la prospettiva e riprendere in mano la narrazione della vicenda. Appunto, banalizzando i contenuti dell’inchiesta, mistificandone il fine e contestandone persino la legittimità (ricorderete la surreale accusa di aver usato “metodi da regime”, con tanto di appello al presidente della Repubblica perché intervenisse).
Fate attenzione adesso, perché è il vero punto della questione. L’obiettivo di Meloni non era “vincere” una qualche battaglia comunicativa o rintuzzare gli attacchi dell’opposizione. Era un altro: far passare in secondo piano l’assenza totale di qualunque cambiamento o contromisura come conseguenza dell’inchiesta. Infatti, in Fratelli d’Italia non è cambiato nulla. Non ci sono stati provvedimenti di chissà che natura, Gioventù Nazionale continua a essere il fiore all’occhiello del progetto meloniano (ricorderete il ringraziamento commosso ad Atreju), persino Ester Mieli, direttamente chiamata in causa dai “ragazzi meravigliosi” di GN, è serenamente e convintamente al lavoro in Fratelli d’Italia.
La cosa interessante è che, leggendo l’intervista su Time, possiamo rintracciare chiaramente questo schema. La parte finale è estremamente esplicativa. "Non sono omofoba, non sono razzista, non sono tutte le cose brutte che dicono di me", dice accorata la presidente del Consiglio. Ma a chi si riferisce? Di che parla? Di chi? Ce l'ha con Fragolino68 o con qualche leader di partito? O fa riferimento a qualche aspetto specifico delle critiche che le vengono mosse, ad esempio sull'immigrazione? Non si sa, non è chiaro e non è interesse di nessuno chiarirlo. Lo scopo è un altro: portare chi scrive e chi legge su un altro terreno, su cui è effettivamente difficile vincere la partita.
È sempre così. C’è un passaggio, ad esempio, a proposito del ruolo che Meloni sta avendo per dare una piattaforma credibile e incisiva a tutta una serie di movimenti europei di estrema destra, fino a pochi anni fa ai margini del processo democratico. Ve lo incollo qui:
Da queste contraddizioni, Meloni sta costruendo un nuovo tipo di nazionalismo: populista, nativista e pro-occidentale, ma impegnato nelle alleanze europee e atlantiche. «Prima di tutto dobbiamo difendere ciò che siamo, la nostra cultura, la nostra identità, la nostra civiltà» dice, seduta con le gambe e le braccia incrociate davanti a una bandiera italiana. Un percorso che conduce ben oltre l’Italia. Dal Portogallo alla Romania, estremisti una volta emarginati stanno esautorando i partiti conservatori tradizionali, proprio come il movimento MAGA negli Stati Uniti. […]
I sostenitori di Meloni dicono che lei ha trovato un modo per far partecipare queste forze di estrema destra al processo democratico, neutralizzandone la minaccia. […] I critici vedono uno scenario più oscuro. Dicono che, dopo aver costruito una reputazione moderata all’inizio, ora si stia spostando di nuovo a destra, da quando Trump è tornato al potere, facendo piccoli ma efficaci passi per erodere la democrazia e aprire la strada a un’alleanza internazionale di estremisti di destra che minaccia il liberalismo europeo del dopoguerra. «Se si guarda al modo in cui si comportano altri leader autoritari, procedono per gradi» dice Nathalie Tocci, professoressa alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Bologna. Ciò che preoccupa di Meloni, aggiunge Tocci, «è la direzione di marcia».
È uno scherzo della storia che Meloni stia forgiando un nazionalismo del XXI secolo nel paese che ha incarnato la versione liberale dell’Ottocento per raggiungere l’unità e, con Mussolini, ha creato il catastrofico modello fascista del Novecento. Meloni ha ripetutamente rinnegato quest’ultimo. Ma abbraccia il primo in termini quasi irredentisti, dichiarando la sua intenzione di «ricostruire la nostra identità, ricostruire l’orgoglio, l’orgoglio di essere chi siamo… A qualunque costo»
Ecco, dunque, che Meloni non appare come la leader di movimenti estremisti e potenzialmente pericolosi per i valori della democrazia europea. Bensì come colei in grado di istituzionalizzarli, di dare un senso al voto di milioni di europei e, dunque, finendo addirittura col rafforzare il processo democratico.
C'è da stare tranquilli, non trovate anche voi?