Iscriviti a Evening Review.
Ricevi l'approfondimento sulle news più rilevanti del giorno

Ne abbiamo già parlato, uno dei fatti più interessanti sul piano strettamente politico negli ultimi anni è il modo in cui Giorgia Meloni sia riuscita prima a costruire, poi a mantenere, infine a solidificare il suo consenso. Non risentire di oltre mille giorni di responsabilità di governo, peraltro, è una vera e propria anomalia storica, un caso pressoché unico per il nostro Paese.
Come vi ho raccontato in questo approfondimento, infatti, è abbastanza frequente – o meglio, storicamente accertato – il calo di consensi che sperimenta chiunque si assuma l’onere e l’onore di governare il nostro Paese. A questa legge non scritta si sono piegati un po’ tutti: da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, le carriere politiche dei leader hanno visto oscillazioni del consenso che sono coincise, in particolare, con la loro esperienza da Presidente del Consiglio. Se governi devi prendere decisioni, se decidi finisci inevitabilmente per scontentare qualcuno, soprattutto rispetto alle promesse elettorali. Che, in questo Meloni non ha fatto eccezione, sono tendenzialmente irrealistiche o calibrate più sui desideri dell’elettorato che su reali possibilità o concrete volontà.
Giorgia Meloni, dicevamo, sembra non risentire affatto dell’effetto logoramento da Palazzo Chigi. Il suo partito, Fratelli d’Italia, continua a essere intorno al 30% nei consensi, mentre la coalizione di governo che la sostiene sarebbe ancora nettamente favorita nel caso in cui si dovesse andare a votare nel breve volgere di qualche settimana. Per capire come sia possibile un simile risultato, non basta affidarsi a slogan o a banali riflessioni, magari di parte, ma serve un’analisi molto più profonda e molto più complessa. Per comodità, cercherò di dividere in tre grandi blocchi le motivazioni alla base di questo successo, provando ad approfondire ognuno di essi.
Essenzialmente, ci sono tre grandi domande che, a mio avviso, rappresentano il fulcro dell’intera questione. La prima: Perché votare Giorgia Meloni alle elezioni politiche del 2022 e riconfermarle il sostegno alle europee del 2024? La seconda domanda: perché rivotarla alle politiche del 2027 e, in ogni caso, sostenerla alle imminenti elezioni regionali? La terza domanda: chi altri votare, se non Giorgia Meloni e la coalizione di centrodestra?
Le risposte alle tre domande, ovviamente, sono interconnesse. E partono dal presupposto che esista una corposa fetta di elettorato che apprezzi l'azione del governo, condivida la proposta politica della maggioranza e si identifichi nel posizionamento ideologico della leader di Fratelli d'Italia. La mia idea, però, è che non si possa liquidare una questione così complessa in questo modo banale. E che servano ulteriori considerazioni. Perché, malgrado la propaganda, di "successi" questo governo ne ha incassati ben pochi. Il Paese continua a fare i conti con problemi atavici, le promesse elettorali sono state in larga misura disattese, la maggioranza è tutt'altro che coesa e l'Italia non sembra esattamente il motore dell'Europa e un faro imprescindibile per l'intero Occidente. Ci sono alcuni casi limite, che chiariscono il punto.
Prendiamo la vicenda Albania, con il governo che sta ostinatamente perseguendo un progetto costoso, inutile, che vìola norme interne e internazionali, spendendo decine di milioni di euro dei cittadini italiani senza ottenere nulla e dopo aver promesso di poter risolvere definitivamente il "problema" degli arrivi illegali nel nostro Paese. Un flop colossale, che non sta però pesando in termini di consenso elettorale.
Dunque?
Ecco, per non dilungarmi eccessivamente, affronterò solo marginalmente le ragioni profonde dell'ascesa di Meloni, cercando di metterne a fuoco solo alcuni punti, che ritengo abbiano profonde implicazioni sulla situazione odierna. Anche perché il suo percorso, parte di un più ampio cammino di normalizzazione della destra post-fascista italiana, è stato tortuoso e non sempre lineare. Per restringere il campo, invece, appare piuttosto utile fissare un momento preciso che rappresenta, in un certo senso, il turning point della storia recente del partito guidato da Giorgia Meloni.
Siamo ancora in piena pandemia – o meglio, in quella fase in cui la gestione politica dell’emergenza pandemica è al punto critico, perché vanno messe da parte le misure straordinarie per provare a governare in modo ordinario ciò che resta di straordinario. In quella fase, chi governa si trova a dover gestire il peso delle conseguenze delle decisioni prese dal governo precedente, quello guidato da Giuseppe Conte. Stiamo ovviamente parlando della parentesi di Mario Draghi, il periodo in cui, temporalmente, si registra il più grande avanzamento di Giorgia Meloni nei sondaggi elettorali e nel gradimento tra i cittadini italiani.
Attenzione, però, perché qui ritengo sia necessario aprire una piccola parentesi. È importante evitare di lasciar intendere che Giorgia Meloni abbia semplicemente cavalcato la rabbia dei cittadini contro le misure restrittive della pandemia o gli scetticismi verso il piano di vaccinazione nazionale e, più in generale, verso le indicazioni del governo. In realtà, Giorgia Meloni ha adottato un atteggiamento politicamente molto intelligente durante gli anni della pandemia. Dapprima ha mostrato un forte senso di responsabilità. Basti ricordare che fu una delle pochissime figure politiche a mettere in discussione, fin da subito, l’efficacia della famosa campagna ‘abbraccia un cinese’, sottolineando come non fosse il modo più efficace per incentivare meccanismi di protezione e controllo della trasmissione di un virus che, in quel momento, era localizzato principalmente tra i cittadini cinesi. Certo, lo ha fatto con toni talvolta discutibili, che in alcuni casi hanno sfiorato la sinofobia, ma politicamente il messaggio che è passato è stato quello di una certa prudenza, di grande attenzione e – soprattutto – di una grande capacità di mostrare le indecisioni e gli errori dei partiti al governo.
Successivamente, è stata molto brava a posizionare il suo partito decisamente all’opposizione, in una fase in cui il governo – sostenuto da un’ampia maggioranza – si divideva praticamente su tutto, e alcune delle misure di contrasto alla pandemia apparivano illogiche o comunque meno efficaci di quanto avrebbero dovuto essere. Tra mille contraddizioni, palesi strumentalizzazioni e tanta ambiguità, va detto anche questo.
Il governo Draghi, in fin dei conti, è stato il migliore assist che potesse esistere. Lei lo ha sfruttato.
I trionfi alle Politiche del 2022 e alle Europee
Giorgia Meloni ha da sempre dimostrato un’incredibile capacità di polarizzare, un atteggiamento che in politica spesso paga, soprattutto per i leader di matrice populista, come ha ben spiegato Cas Mudde. Il politologo olandese, infatti, ha analizzato la capacità di alcuni leader di sfruttare bene il dualismo élite/popolo, soffermandosi su quanto la capacità di porsi come veri interpreti della volontà popolare paghi maggiormente proprio in momenti di crisi e di incertezza (come, appunto, la fase post pandemia). Collocandosi praticamente come unica forza di opposizione a un governo guidato da una personalità tecnica (peraltro visto come ex banchiere, ex burocrate, per eccellenza l'uomo delle elite) e appoggiato da una larghissima coalizione, la leader di Fratelli d'Italia era riuscita a far leva proprio sul dualismo alto-basso, presentandosi davvero come l'unica risposta al grande inciucio. Aveva svuotato l'elettorato del suo alleato Salvini, convinto i duri e puri che avevano votato 5 Stelle e si erano trovati Grillo a stringere la mano di Draghi, rassicurato gli elettori moderati, passeggiato, infine, sulle macerie di un'opposizione divisa e autolesionista. Malgrado fosse letteralmente nata nei palazzi del potere, cooptata già da Berlusconi al governo e circondata da politici di lunghissimo corso, era riuscita (e riesce ancora!) a presentarsi come l'underdog, la donna cresciuta in mezzo al popolo e capace per questo di interpretarne i bisogni più autentici. Madre, donna, cristiana, come milioni di italiane. Patriota, schietta, del popolo, come milioni di italiani.
Una volta al governo, aveva adottato un atteggiamento estremamente conservativo: continuità nelle scelte di bilancio, nel posizionamento in campo internazionale e persino nei rapporti con le istituzioni europee (con buona pace dell'ala più radicale della Lega). Scelte forzate, probabilmente, ma non per questo meno significative. Della rivoluzione promessa in campagna elettorale, poco o nulla, se si eccettua qualche tassello (la cancellazione del reddito di cittadinanza, la ristrutturazione del superbonus). Ma, avendo il pieno controllo della narrazione, agli italiani conservazione, timore e indecisione sono stati presentati come stabilità e responsabilità. Il test delle Europee è stato emblematico, in tal senso. Personalizzazione spinta, presenza strabordante sui media, capacità di incanalare il dibattito pubblico sul terreno a lei più congeniale, costruzione dell'immaginario di una presidente in grado di "aggiustare tutto": elementi chiave di un successo annunciato, ma reso poi monco dai risultati meno esaltanti delle attese delle altre formazioni della destra conservatrice e identitaria in Europa. Così, dopo aver promesso cambiamenti epocali in Europa, dopo aver assaporato la possibilità di mostrare al mondo come l'Italia potesse essere davvero il laboratorio della nuova destra identitaria, Meloni rischiava di trovarsi isolata di fronte alla ridefinizione degli equilibri politici.
Qualche mese dopo, però, sarebbe intervenuto l'altro elemento cardine della storia recente: la vittoria alle presidenziali USA di Donald Trump.
Il nuovo ruolo di Meloni, la quinta colonna trumpiana
Ne scrivevo qualche tempo fa, il progetto di Donald Trump è particolarmente ambizioso e comporta un cambiamento globale, culturale, politico e ideologico. L’orizzonte non è dei migliori, almeno se guardato dalla nostra prospettiva: uno scenario globale egemonizzato da autocrazie cesariste, che facilitano, agevolano o comunque non ostacolano, l’operato dei grandi potentati economici che aderiscono più o meno genuinamente al nuovo modello di società vagheggiato dalla destra identitaria e sovranista. In tale contesto, l’Europa rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, una vera alternativa, politica, culturale, ideale. E, appunto, all’indebolimento di tale alternativa la nuova amministrazione americana ha dedicato ampi sforzi (si ricordi l’intervento di Vance a Monaco), potendo contare anche sul formidabile aiuto di Giorgia Meloni.
La scelta della leader di Fratelli d’Italia è stata netta fin da subito: schiacciare la linea in politica estera del nostro Paese su quella della nuova amministrazione americana, praticamente in ogni contesa e questione. Sul piano personale, l’azzardo ha pagato in termini di prestigio internazionale e (ulteriore) considerazione dei media. Sul piano concreto, un po’ meno: l’Italia è sempre meno “dentro” i processi europei (malgrado la tutela di von der Leyen) e gli statunitensi non hanno alcuna intenzione di riservarci corsie preferenziali (come potrebbero, del resto?). Sul piano comunicativo, Meloni ha provato a venderci la tesi del “ponte” fra USA ed Europa per “tenere insieme l’Occidente”. Anche qui, poco più di una boutade comunicativa, che può andar bene per qualche titolo di Libero, meno per convincere i leader europei.
La copertina di Time, la comunicazione di "Giorgia", lo stato dell'opposizione
Nel corso di queste ultime settimane, proprio nell’Evening Review, mi sono spesso occupato delle capacità comunicative di Giorgia Meloni. Essenzialmente rintracciandone alcuni elementi distintivi, dal vittimismo alla deresponsabilizzazione, passando per la ricerca dell’autenticità e della polarizzazione spinta. La sua capacità di controllare la narrazione è indubbia, così come la sua poliedricità nel muoversi su diversi piani e piattaforme. Meloni funziona in televisione, grazie al racconto corale di gran parte del servizio pubblico e all’aiuto che le arriva dalle reti private. Va benissimo sui social, creando bolle in cui la spontaneità e l’efficacia dei concetti hanno più importanza della verità e dei risultati. Straborda sui giornali di area, che controlla più o meno direttamente.
Un esempio lo abbiamo avuto con l’ormai famosa copertina di Time. Un’intervista che è un manuale di come si può manipolare il dibattito pubblico, sfruttando tecniche piuttosto semplici. Come vi raccontavo, in questo pezzo che ha fatto molto arrabbiare Fratelli d'Italia (che gli ha dedicato una card sui propri profili social), è una verta strategia:
Quando si ha a che fare con un argomento molto delicato e potenzialmente dannoso, la tecnica è molto semplice: si assume un punto di osservazione volutamente paradossale, enfatizzando le critiche più radicali o iperboliche, estraendo dal contesto, banalizzando e assolutizzando le critiche più centrate ed efficaci, per poi incardinare l’intera discussione sul binario vittimista. Dalla questione migranti alla F word, passando per gli altalenanti risultati in campo economico e le riforme naufragate, fino ad arrivare agli obbrobri giuridici (come il decreto sicurezza) e agli inciampi della maggioranza (scandali, inchieste e via discorrendo): non c’è una sola questione che non sia ridotta in questo particolare frame comunicativo.
E funziona, per il momento funziona. Anche perché le opposizioni, salvo rarissime eccezioni, accettano di buon grado di giocare la loro partita su questo terreno. I leader cercano, quasi bramano, una loro legittimizzazione nello scontro polarizzante con Meloni, senza mostrare di avere un’offerta politica realmente attrattiva. Si dividono e litigano su questioni considerate lunari dall’elettorato, mentre appaiono poco incisivi sui grandi temi di interesse pubblico. Quando potrebbero affondare il colpo sono frenati da strategismi e contraddizioni interne (l’atteggiamento del Partito democratico di fronte ai massacri di Gaza è emblematico). Hanno una comunicazione troppo spesso prudente o ancorata a schemi vecchi.
Ciò non vuol dire che non esista un’alternativa, né che Meloni governi un Paese pacificato. Ci sono tante forze in movimento, prodromi di nuove mobilitazioni, cui bisognerebbe prestare grande attenzione. Il punto è che mentre a destra c’è un progetto politico da rincorrere e perseguire (la trasformazione del Paese nella direzione identitaria, sovranista e ultraconservatrice), l’alternativa sembra mancare di una piattaforma politico-ideologica che sappia essere a un tempo unitaria e plurale. Ci si riduce al cartello elettorale, il più delle volte.
Forse un po’ poco, considerando che fra due anni il Paese sarà chiamato a un voto, quello delle Politiche del 2027, che determinerà il Parlamento che eleggerà il nuovo capo dello Stato e il governo che opererà nel pieno dell’epopea trumpiana. Staremo a vedere.
OT: piccola nota di servizio, con questo numero speciale la nostra Evening Review si fermerà per un po'. Ci ritroveremo fra qualche settimana, con una nuova formula. A presto!