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Ricevi la rassegna speciale a cura di Adriano Biondi

La gran parte degli analisti politici ha raccontato la discussione interna alla maggioranza sulla legge di bilancio come un pasticcio, conclusosi con una serie di forzature e con l'approvazione con una fiducia che, come ormai accade fin troppo spesso, ha pure tagliato fuori la Camera dei deputati da un'analisi di senso del provvedimento. Il caos intorno a pensioni, spese dei ministeri e sostegno alle imprese, come vi abbiamo raccontato, dipendeva essenzialmente dalle differenti posizioni delle varie anime compongono la maggioranza di governo e che non sempre coincidono con le formazioni di partito. Nello specifico, non c'è alcun dubbio che il balletto sulle pensioni sia stato una sorta di regolamento di conti interno alla Lega, con il superministro Giancarlo Giorgetti sostanzialmente impallinato da quelli che teoricamente sarebbero suoi colleghi di partito. Fatto molto rilevante, considerando due elementi: la tempistica dello scontro (con la legge di bilancio in dirittura d’arrivo, base per l'uscita dell’Italia dalla procedura di infrazione Ue) e il fatto che Giorgetti sia diventato negli anni uno degli uomini di maggior fiducia della presidente del Consiglio. Insomma, colpire Giorgetti equivale a mandare un messaggio a Giorgia Meloni: la Lega c’è e vuole contare.
Nulla di così sorprendente, per chi è avvezzo alle cronache politiche, considerando la nota distanza del titolare dell’Economia dal leader leghista Matteo Salvini, sostenuto da tempo con grande forza dall’ala più radicale del Carroccio. Distanza che, a onor del vero, ha animato più i retroscena sui giornali che le sedute in Consiglio dei ministri o le riunioni in casa leghista. A voler sposare la lettura ufficiale della maggioranza, si è trattato di normale dialettica politica, della ricerca di un equilibrio in modo da “correggere errori” che avrebbero avuto ripercussioni anche in termini di consenso elettorale. Quello che contava era portare a casa il provvedimento, evitare gli scossoni, tenere dritta la barra e non disturbare la placida e tranquilla navigazione del governo Meloni, in vista dell'ultimo anno pieno della legislatura e di una prossima finanziaria in cui potrebbero essere disponibili risorse fondamentali per raggiungere l'obiettivo che più conta: la conferma alle Politiche del 2027, base per eleggere il nuovo Capo dello Stato e per trasformare compiutamente l'Italia nel laboratorio mondiale della nuova destra sovranista e identitaria (con buona pace di Tajani e dei Berlusconi).
Corretto, forse, ma non esaustivo.
C’è tanto altro di cui si discute, nelle poche pause della lunga maratona conclusiva alla Camera dei deputati. E se il mood tra i vertici di Fratelli d’Italia è un vanzinesco “e anche questa legge di bilancio se la semo levata dalle…”, diversi sono i sentimenti degli alleati. Per ragioni distinte, salviniani e forzisti restano piuttosto perplessi rispetto alle scelte conservative di Giorgia Meloni. La quarta manovra del governo, in effetti, insiste sulla linea della prudenza e dell’equilibrio, puntando a consolidare il percorso dei primi anni e a ripagare la fiducia degli investitori, soprattutto stranieri. Ci sono tante buone ragioni per proseguire su questa strada, hanno spiegato Meloni e Giorgetti, tra cui le tante incertezze sul versante geopolitico. La partita che il governo intende giocare è sempre quella della credibilità internazionale e della stabilità del sistema economico – finanziario, insomma, almeno fino al prossimo anno, quando si tratterà di impostare la lunga rincorsa alle elezioni del 2027, snodo cruciale per il nostro Paese (e non solo). Del resto, i margini di manovra sono quelli che sono, il ministro dell'Economia lo ha ribadito più e più volte. E la reggente di Chigi gli ha fatto da sponda, utilizzando nuovamente la carta vittimista: è colpa della sinistra, del superbonus, di Conte, Monti, Ciampi, Dragh… Ah, no, non di Draghi.
Il punto è che l'asse Meloni-Giorgetti è nato per tagliare fuori gli altri e normalizzare una gestione prudente e senza strappi. E qualcuno, anche all’interno della maggioranza, comincia a essere piuttosto perplesso di questa conduzione simil-draghiana. Perché prima o poi i conti con gli elettori e con i propri referenti nel sistema produttivo bisognerà farli. Lo sa bene Salvini, che ha promesso ai suoi di smantellare la Fornero, di arrivare a una vera flat tax, di varare un sostanzioso piano casa, di realizzare il Ponte sullo Stretto, di ridurre la criminalità nelle grandi città e una marea di altre cose di cui non si intravedono che sparuti contorni. Lo sa Tajani, che deve fare i conti con il nervosismo dei Berlusconi, coi continui tentativi dei leghisti di metterlo in difficoltà su banche e politica estera (l'ultimo compromesso sul decreto Ucraina ha lasciato interdetti molti nel partito), con il chiaro commissariamento operato da Meloni nei rapporti internazionali, che tra l'altro incrina l'anima realmente europeista della base elettorale di Forza Italia.
Certo, i riscontri dei sondaggi sono ancora abbastanza positivi: Fratelli d'Italia continua a guadagnare voti, Lega e FI sono stabili intorno all'otto per cento, il gradimento del governo è sopra al 42%, quello di Giorgia Meloni leggermente più alto. E l'esercizio di stile di forzisti, leghisti e meloniani in Aula è stato lodevole: Barelli ha esaltato il ruolo di Tajani in politica estera e rivendicato il sostegno alle scuole private e le scelte a tutela del ceto medio; Molinari ha snocciolato i risultati in campo occupazionale (importanti, non c'è alcun dubbio), il traguardo dell'uscita dalla procedura di infrazione con un anno di anticipo (non facendo menzione sulla destinazione dei circa dieci miliardi di margine per il 2027), spiegando come il calo della produzione industriale sia colpa della "sinistra" che ha approvato il green deal in Europa; Trancassini ha esaltato la "straordinaria" Giorgia Meloni, ha attaccato "i gufi", spiegato come l'equilibrio e i conti in ordine si sia sposato in pieno con la crescita e il sostegno ai ceti meno abbienti, ricordato a Schlein che "il Pd sa solo creare problemi, ma un'aspirante presidente del Consiglio deve dare le soluzioni". Tutto nella norma, insomma, con un surplus di entusiasmo dettato da necessità comunicative.
Ma il timore di aver sprecato l'ennesima occasione è palese e tracima anche dalla lettura dei giornali di queste settimane. Anche perché, come testimonia l'inutile dibattito parlamentare alla Camera di oggi, l'opposizione può avere buon gioco nell'attaccare la maggioranza sul vero nervo scoperto: la visione prospettica, nelle sue diramazioni in economia e welfare, ma anche nell'indebolimento del sistema dei contrappesi istituzionali, alla base del nostro sistema democratico. Un assist involontario che pare sia stato colto.
Lo spiega ad esempio Nicola Fratoianni: "Il Paese reale è quello degli italiani in povertà che crescono, dei milioni di italiani che rinunciano a curarsi, dei due milioni di famiglie in povertà energetica che non riescono a fare i conti con i problemi quotidiani, del sistema produttivo col segno meno da trenta mesi, delle centinaia di migliaia di persone travolte da un'emergenza abitativa che si fa ormai esplosiva". Su tasse, pensioni e promesse, è Faraone, di Italia Viva, a calcare la mano: "Come i ladri di Pisa Giorgetti e Salvini siete stati beccati addirittura a peggiorare la legge Fornero, siete stati colti con le mani nella marmellata e quindi siete stati costretti a tornare indietro. […] E la promessa di 1000 euro di pensione sociale? Ci vorranno 127 anni per arrivarci. E il taglio delle tasse? Introducete 10 miliardi di nuove imposte, sui tabacchi, sull’Rca Auto, sui pacchi, sul gasolio, mentre aumentano le accise sui carburanti”. Il M5s spinge su pensioni e welfare: “È per colpa vostra se aumenta l’età pensionabile e resta la Fornero. Date i soldi alle scuole private mentre quelle pubbliche cadono a pezzi, privatizzate sempre di più la sanità e fate favori a banche, compagnie assicurative e colossi del web a cui fate uno sconto di due miliardi per scodinzolare a Trump”. Persino Azione è critica, seppur da una prospettiva diversa, con Bonetti: “Tenere i conti pubblici va bene, ma poi le poche risorse che si hanno vanno investite in maniera efficace. Lo diciamo con chiarezza: la rottamazione è uno spreco di soldi pubblici, l’intervento minimo sulle pensioni è dannoso ed è uno spreco, il fondo per i libri di testo è una presa in giro, parliamo di dieci euro a figlio. Ci saremmo aspettati una serietà diversa da questo governo”. Schlein, infine: "È una manovra che non interviene sulle bollette, mentre gli stipendi hanno perso potere d'acquisto a causa dell'inflazione. Non fate nulla per compensare le famiglie sui danni dei dazi di Trump, avevate promesso un piano da 24 miliardi che è svanito nel nulla. La riduzione di aliquote va a vantaggio dei ricchi, come dimostrano i tagli alla scuola e alle università pubbliche. La verità è che per voi la povertà rimane una colpa individuale, non un problema sociale".
Il solito gioco delle parti, direte voi. Ma anche la sensazione di una sorta di sospensione, tra propaganda e realtà dei fatti, in attesa che i nodi vengano al pettine e le cose comincino a delinearsi con maggior compiutezza. Tradotto: che Meloni sveli finalmente da che parte vuole stare tra Ue e Usa (e prima o poi sarà inevitabile), si giochi la partita sulla giustizia al referendum (dopo aver assestato il primo colpo con la riforma della Corte dei Conti) e, infine, vari la sua finanziaria elettorale, mostrando il futuro che davvero immagina per il nostro Paese. E che il campo largo decida se l'unità è solo un feticcio da sventolare per rassicurare i propri elettori, o se c'è davvero un'idea diversa di Paese.