Un medico descrive con lucidità l’agghiacciante situazione degli ospedali in Campania
Si tratta di una delle lettere più sconcertanti giunte alla redazione di fanpage.it. Non ci sono risentimenti, non c'è rabbia. È cronaca, lucida e quindi per questo spietata, della drammatica condizione nella quale versa il sistema sanitario della Campania. A descrivere lo scenario non è una persona qualunque: è qualcuno che in quel sistema ci lavora.
Che ha scelto di farlo perché crede nel sistema sanitario. Che non se la prende con colleghe e colleghi ma evidenzia ciò che è accaduto alla sua vita e a quella delle persone care, spiegando che l'oggi è frutto di politiche susseguitesi nel corso di decenni.
«Scrivo questa lettera di getto, senza curarne molto la forma, per raccontare la mia recente esperienza prima che per meccanismo di difesa venga offuscata nella memoria. Sono un medico pediatra campano, lavoro in ospedale e per scelta ho sempre investito tutte le mie energie nel sistema sanitario pubblico.
Da anni mi trovo anche dall'altra parte avendo accompagnato prima mia madre nel suo percorso presso un ospedale oncologico campano a dir poco sovraccarico di pazienti (periodo di cui ho cercato di rimuovere tutte le difficoltà, l'indifferenza e le scortesie subite) e da qualche anno accompagno mio padre nel difficile percorso di paziente oncologico con disabilità.
Alcuni giorni fa ho condotto mio padre presso il pronto soccorso di un grande ospedale campano per un problema che non potevo più gestire a domicilio. Ho scelto di omettere il nome dell'ospedale poiché la mia critica non va al singolo presidio o al singolo reparto bensì alle scelte politiche che hanno portato a questi risultati».
Il racconto del medico – che si firma con nome e cognome – ha un incipit netto: «Ho trovato la situazione del pronto soccorso ulteriormente peggiorata: un film dell'orrore».
«I medici, giustamente distratti per il numero eccessivo di pazienti in carico si ricordavano di rivalutare mio padre, di guardare i risultati dei suoi esami e di provvedere ad un'idratazione soltanto su mia richiesta. Una sola infermiera seguiva tutti i pazienti ed impostava le terapie con un viso stanco ma sorridente; le ho chiesto se fossero in sotto-numero e mi ha risposto "come sempre"».
«Mio padre aveva necessità di essere cambiato; il medico mi ha detto che avrebbero provveduto gli oss (acronimo che indica gli operatori socio sanitari ndr.) ma di avere pazienza perché erano in pochi. Ho chiesto quattro volte in quattro ore di cambiarlo, proponendo di aiutarli io per alleggerire il loro carico se mi avessero fornito il materiale. È arrivato un oss svogliato dopo molto tempo e ha urlato a mio padre in modo scortese di girarsi».
«Lo ha cambiato senza privacy, rivolgendosi in maniera sgarbata, senza lavarlo e non chiudendo bene il pannolone, così che il lenzuolo si è sporcato tutto di feci e ho provveduto io alla buona col materiale che avevo a disposizione. Intanto è arrivato in stato di sopore un paziente giovane con malattia metabolica e ha ricevuto una presa in carico al triage soltanto dopo che le sorelle si sono messe ad urlare e a fare "la sceneggiata"».
Questa professionista ha un compagno, anch'egli medico. E il racconto dell'orrore continua: «Sono stata poi sostituita dal mio compagno, anche lui medico, che è entrato per la prima volta dentro dopo anni. È rimasto sbalordito, tornato anche lui con una serie di aneddoti mi ha detto che questo posto se non lo si vive non lo si può raccontare perché non rende».
«Un mio compagno di università che lavora in questo ospedale mi ha detto "Io ogni volta in cui scendo a fare una consulenza in pronto soccorso prego che i miei genitori non debbano finire mai in quel posto". Anche nelle chat private di noi medici capita di leggere che tale pronto soccorso "è una bolgia dell'inferno". Tutti ne siamo a conoscenza in questa terra, ma allora perché non facciamo qualcosa oltre a sperare di non finirci e che non ci finiscano i nostri cari?».
«Nei giorni successivi mio padre è stato ricoverato nel reparto di Osservazione breve (il cosiddetto Obi ndr.) dove ho trovato una situazione paragonabile a un ospedale da campo: pazienti ammassati nei corridoi, familiari che aspettavano avviliti un medico che non si trovava perché intanto aveva altre unità in carico, e questo per ogni piccola richiesta, senza che nessun operatore sapesse guidarli, e così se ne andava il tempo in piedi in attesa, finché qualcuno non iniziava a urlare e dare fastidio e il medico compariva».
«Sono stati giorni difficili in cui i medici al colloquio giornaliero leggevano le consegne e i risultati degli esami di mio padre ma si evinceva chiaramente che non c'erano un programma, una continuità assistenziale, che non vi era stata una discussione clinica tra i medici di reparto e con i consulenti».
«I medici erano per la maggior parte degli specialisti di altre cliniche che effettuavano un singolo turno mensile per ordine di servizio aziendale, si lamentavano inoltre di avere tanti pazienti in carico per poter tenere tutto presente: ovvio che in una situazione del genere si aspetta soltanto che il turno passi e non si guarda mai al paziente nel suo percorso e nella sua interezza.
Mio padre è stato vari giorni in barella, scomodo, nonostante la sua invalidità, mentre altri pazienti passavano dal pronto soccorso direttamente nei letti. Ho fatto notare la cosa e mi hanno risposto che i posti letto erano riservati per pazienti in ossigeno ma nessuno dei nuovi ricoverati faceva ossigeno. Fatto notare anche questo, l'ultimo giorno è uscito il letto per mio padre.
Non si trattava certo di dare la priorità ai più sfortunati, si trattava di sciatteria organizzativa in un marasma fatto di carne umana, dove chi alza la voce e dà fastidio può ricevere un minimo di attenzione. Ecco perché, quando qualcuno di noi ha un familiare in ospedale scatta la ricerca della famosa telefonata "Potresti prendere informazioni? Gli potresti dare un occhio di riguardo?". Come mai abbiamo tutti, me compresa, questa mentalità? Perché sappiamo che è una lotta per la sopravvivenza nostra e dei nostri cari: è necessario alzare la voce o farsi fare la raccomandazione per cose che invece dovrebbero spettarci di diritto. E tra le vittime di questo sistema ci sono sicuramente i più poveri, i più soli, i più fragili».
La lettera volge al termine con domande che ogni operatore del settore, ogni politico, nazionale, regionale, comunale, ogni direttore generale d'ospedale, ogni primario, medico, infermiere, operatore socio-sanitario dovrebbe farsi:
«Mi chiedo dove vadano a finire i soldi delle nostre tasse se un primo soccorso che racchiude un'area urbana così grande funziona così».
«Mi chiedo come possa essere giusta una società se la politica non investe in primis nell'emergenza: quella rivolta a tutti indiscriminatamente, quella la cui efficienza discrimina tra la vita e la morte di un essere umano.
Ritengo sacrosanta la lotta contro la violenza al personale sanitario in quanto anche noi sanitari siamo vittima della politica che ha depauperato il sistema sanitario pubblico, ma questa lotta deve assolutamente essere affiancata da un forte investimento per il miglioramento delle condizioni degli ospedali pubblici»
«Occorre aumentare il personale, aumentare il rapporto tra medici-infermieri-oss e pazienti perché è troppo basso e il personale sanitario non riesce a sopperire alle richieste e va in burn-out. Occorre aumentare gli spazi, anche la comodità delle persone sfortunate che approdano a un dipartimento di emergenza e dei loro familiari per alleviare il loro dolore».
«Occorre aumentare il numero di presidi che possano gestire un paziente complesso afferente al pronto soccorso senza dover dire "andate in quell'ospedale perché è l'unico che vi può gestire, qui non c'è questo o quello specialista".
Un'area urbana enorme non può afferire quasi tutta ad un singolo ospedale che diventa l'ospedale degli orrori. Il resto è tutta retorica».
Nella speranza di dare voce a tante altre storie simili inespresse e rendere loro una seppur minima giustizia, nel tentativo di dare voce a tanti miei colleghi che hanno scelto di lavorare nel sistema sanitario pubblico e si sono trovati a lavorare in un girone dell'inferno, nel desiderio di difendere gli ideali di umanità ed equità che mi hanno spinto a fare il medico e che provo ad applicare quotidianamente, e infine per questa terra martoriata, dove ho scelto di restare a lavorare per dare un contributo alla salute collettiva e non per assistere a un'ulteriore sofferenza sulla sofferenza».