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Violenza ostetrica: “Mi hanno spremuto l’utero senza dirmi niente, ho rivissuto un’infanzia di abusi”

Vera (nome di fantasia) è stata vittima di violenza ostetrica partorendo il suo terzo figlio. Il dolore fisico e psicologico provato durante quell’esperienza traumatica le ha fatto rivivere gli abusi subiti in famiglia quando era bambina.
A cura di Chiara Daffini
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Viola (nome di fantasia) è stata prima vittima di violenza familiare e poi di violenza ostetrica
Viola (nome di fantasia) è stata prima vittima di violenza familiare e poi di violenza ostetrica

Vera in realtà non si chiama così, ha 35 anni e vive in Lombardia, dove si è trasferita diversi anni fa per fuggire da una situazione familiare diventata insostenibile. Un padre violento, i fratelli che abusavano sessualmente di lei. Poi la fuga e la ritrovata libertà in un ambiente nuovo insieme al marito.

"Quando ho dato alla luce il mio primo bambino – racconta a Fanpage.it – mi sembrava di aver finalmente fatto pace con il mio passato: il mio corpo non era più oggetto di violenza, ma soggetto e artefice di una cosa bellissima".

Dopo il primo figlio ne arriva una seconda e successivamente Vera rimane di nuovo incinta. "Ho partorito a dicembre 2020 – dice Vera – in pieno Covid, in zona rossa. Era il terzo parto, quindi ci aspettavamo che sarebbe stato abbastanza veloce. Quella sera mio marito è dovuto rimanere a casa con i bimbi perché non avevamo nessuno che ce li tenesse e quindi sono andata a partorire da sola".

Un parto diverso dagli altri

"In pronto soccorso – ricorda la donna – mi hanno fatto tantissime domande per il Covid e mi hanno tenuta in accettazione circa quaranta minuti, ormai ero dilatata di quasi sei centimetri. Stavo molto male, piangevo e nessuno mi chiedeva se avessi bisogno di aiuto a svestirmi".

"Poi – continua – finalmente mi hanno portata in sala parto sulla carrozzina e nel mentre l'ostetrica che c'era dietro al bancone si è messa a ridere perché stavo piangendo dal dolore. Mi sono sentita presa in giro, ma in quel momento stavo troppo male per pensarci".

"Il personale medico e infermieristico – dice ancora Vera – sembrava non aver capito che io stavo per partorire, a un certo punto ho detto all'ostetrica che sentivo la testa del bambino e allora lei mi ha fatta sdraiare su un lettino a gambe divaricate, non permettendomi però di scegliere in che posizione partorire".

"L'ostetrica – ricorda Vera – faceva una pressione molto forte sulle mie gambe con le mani durante le contrazioni, per allargare l'apertura del bacino e far uscire il bimbo. Il dolore alle anche me lo sono portato dietro per anni".

In un quarto d'ora il piccolo nasce, Vera lo allatta per una mezz'ora e poi il bimbo viene portato via per tutti i controlli.  "Una quarantina di minuti dopo che avevo partorito – ricorda Vera -, è arrivata la ginecologa di turno, ha guardato l'ostetrica come se dovessero dirsi ‘Ok, adesso facciamo questa cosa' e senza dirmi niente, senza spiegarmi niente, mi ha messo la mano sulla pancia e ha stretto fortissimo l'utero. In quel momento ho sentito un dolore lancinante. Cercavo di spostare con la mano destra la sua mano ma lei stringeva sempre più forte. E l'unica cosa che mi ha detto è stata ‘Lo dobbiamo fare'".

La mancanza di avvertimenti e spiegazioni circa una pratica – la spremitura dell'utero – che seppur spesso necessaria risulta molto invasiva, spaventa e destabilizza la neo mamma: "Se mi avessero informata sulle modalità e le motivazioni di quella manovra così dolorosa probabilmente l'avrei vissuta in maniera diversa – commenta Vera -, anche perché nei precedenti due parti naturali questa cosa non era successa. Tutt'ora non so perché me l'abbiano fatta, tanto più che subito dopo la manovra sono stata portata per ore nella mia stanza  in isolamento e i referti alla dimissione dall'ospedale parlano solo di ‘parto naturale senza complicazioni'".

Il passato riemerge

"Una volta arrivata nella mia stanza, mi hanno lanciato i pannolini per terra dalla porta, per non entrare nella camera.  Sembravano non tenere in considerazione che ero una persona che aveva bisogno di attenzioni, di aiuto e di conforto, anche perché ero da sola, non era consentito l'accesso dei familiari in ospedale. Sono riuscita a fare la doccia dopo una giornata intera, perché nessuno mi ha aiutata a farla".

Ma a pesare è soprattutto l'esperienza in sala parto. "Il dolore della stretta all'utero e il fatto di non essere stata in grado di fermare la dottoressa, di urlare o di fare qualcosa – spiega Vera – mi ha fatta sentire come quando ero bambina e subivo violenze".

"Mio padre – racconta – era una persona molto violenta: picchiava mia mamma, picchiava i miei fratelli, picchiava me. Io a mia volta invece ho subito abusi sessuali dai miei fratelli, in particolare da uno di loro. È andata avanti dai quattro anni fino allo sviluppo, quindi indicativamente undici anni".

La violenza "di famiglia"

La violenza, nel caso di Vera, era una "tradizione" di famiglia, passata di generazione in generazione. "Mio padre – racconta – da piccolo veniva picchiato e a sua volta aveva abusato delle sue sorelle. Anche mio zio picchiava sua moglie e il nonno paterno a sua volta violentava la nonna".

La prima – e purtroppo l'unica – a interrompere questo ciclo di violenze è proprio Vera. "All’età di vent'anni sono scappata portando via mia mamma. Abbiamo detto che andavamo a prendere il pane e non siamo tornate più. Lei è dovuta andare sotto protezione, mentre io ho scelto di non andarci perché facevo l'università e non volevo mollare tutto".

"Ho denunciato – dice Vera -, ma la mia denuncia non è servita a niente perché tutte le persone che sapevano non hanno avuto il coraggio di testimoniare, nemmeno mia mamma, che ha voluto tutelare gli altri suoi due figli".

Vera cambia città per allontanarsi il più possibile da una realtà dolorosa, che però si porta ancora dentro. "Purtroppo devo rimanere anonima – spiega a Fanpage.it -, perché la denuncia nei confronti dei miei fratelli e di mio padre non ha avuto seguito, quindi loro sono liberi e solo segnalati, dal momento che non ci sono state altre denunce da membri della famiglia e le violenze di tanti anni fa non sono provabili. Sto anche scrivendo un libro, ma sarà senza la mia vera firma e senza i loro veri nomi, perché per la legge italiana raccontando la mia storia sono passibile di denuncia per diffamazione".

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