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backstair / Shalom, la comunità degli orrori

“Suor Rosalina mi picchiava anche quando ero incinta”: il racconto di un’ex ospite della Shalom

“Suor Rosalina mi diceva che era meglio l’aborto di vedere una persona come me diventare madre”, il racconto a Fanpage.it di una donna entrata nella Comunità Shalom quando era incinta.
A cura di Ilaria Quattrone
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Dopo la pubblicazione dell'inchiesta sulla comunità Shalom, che si trova a Palazzolo sull'Oglio (Brescia), sono state tantissime le segnalazioni arrivate alla redazione di Fanpage.it. Tra queste c'è la storia Paola (nome di fantasia, NdR), ospite dal 2009 al 2014, che è entrata nella struttura quando era incinta. "Sono entrata in comunità dopo un periodo difficile della mia vita. Facevo uso di cocaina in modo sporadico. Ero incinta e non riuscivo a staccarmi completamente da quella sostanza. Ho quindi deciso di farmi aiutare ed entrare in comunità".

Paola ha conosciuto la comunità di Shalom tramite una volontaria che la frequentava: "Avevo chiesto di entrare dopo le feste natalizie. Volevo trascorrerle con la mia famiglia. Loro mi hanno detto di entrare il prima possibile perché c'erano molte richieste e non c'era posto. Dopo un solo colloquio, nel giro di una settimana sono entrata in Shalom".

"A convincermi a iniziare un percorso in quella struttura è stato soprattutto un fattore: la vicinanza alla mia famiglia. Mi avevano detto che la suora teneva molto ai rapporti familiari – racconta ancora a Fanpage.it – e che avrei avuto la possibilità di vederla spesso soprattutto perché avevo un membro della mia famiglia invalido. Alla fine non è stato assolutamente così".

Gli episodi dell’inchiesta

Una volta entrata, Paola ha raccontato di essere stata sottoposta a una perquisizione: "Ti portano via vestiti, zaino e tutto quello che porti. Ero incinta e mi ero portata un po' di snack di frutta secca. Mi hanno tolto tutto, non ho nemmeno più riavuto i vestiti che avevo quel giorno".

Il primo incontro con Suor Rosalina

A Fanpage.it, ha raccontato il primo incontro con Suor Rosalina: "Appena mi ha vista, mi ha detto che facevo schifo. Ti fa sentire subito come una m****. Ti fa sempre sentire come se tu fossi un relitto della specie umana e che ti fa un favore ad accoglierti lì. E sulla base di questo, si sente in diritto di dirti sempre di tutto. Quando entri lì, certe regole civili che esistono fuori, lì non esistono più. Lì è il suo mondo, le regole le detta lei. Lì non si muove una foglia se non lo dice lei o persone, scelte da lei, che possono permettersi di fare e disfare. Lì vengono a mancare i diritti umani".

Le prime punizioni

Se possibile, la situazione per Paola è peggiorata quanto ha iniziato a mostrare i primi segni di insofferenza: "Quando ho detto che non volevo più stare in quel posto, mi hanno impedito di indossare le scarpe e obbligata a usare per un periodo le ciabatte. Solitamente lo fanno perché hanno paura che tu possa scappare. Scavalcare o correre con le ciabatte è più difficile".

"Appena davo di matto, mi mettevano in laboratorio. Una volta è capitato che è arrivata anche la Suora e le ho prese da lei. Mi sono buttata sotto un tavolo, lei mi ha preso a calci e mi ha detto che era meglio abortire piuttosto che vedere una persona come me diventare madre. Ho fatto anche una-due notti lì e mi ricordo che faceva molto freddo. Non riuscivo più a stare seduta sulla sedia e mi sono sdraiata sul pavimento".

Il giorno del parto, Paola è stata accompagnata in ospedale da una volontaria: "Non ho avuto modo di avvisare mia madre. Le hanno detto che avevo partorito dopo la nascita. I miei genitori hanno potuto vedere mia figlia dopo un mese". Durante quell'incontro, la ragazza ha chiesto alla madre di essere trasferita in un'altra comunità: "Loro hanno sentito. Per sei mesi non ho visto mia madre".

"Mi ha minacciato e mi ha detto che se mi fossi ancora lamentata, avrebbe scritto relazioni negative al tribunale dei minori dicendo che non ero in grado di crescere la mia bimba e che me l'avrebbero portata via. Da lì non ho più detto nulla. Volevo portare a casa mia figlia, non volevo perderla".

E in quell'occasione, Paola è finita in laboratorio: "Per più di un mese sono stata in laboratorio e potevo vedere mia figlia solo per cambiarle il pannolino e darle il biberon. Non la vedevo tutto il giorno. Mia figlia era affidata alle altre mamme. Solitamente i bambini vengono affidati alle altre donne, quando le mamme vengono punite. Anche io ho tenuto per tanto tempo un'altra bimba che aveva la stessa età di mia figlia".

"Ho rivisto la mia famiglia dopo sei mesi e all'incontro di Natale e si è presentato anche il padre di mia figlia. In quell'occasione, la Suora ha buttato fuori dalla comunità tutta la mia famiglia. Ha detto mia madre che era una poco di buono, e che se la faceva con il padre di mia figlia. Per più di un anno non ho visto mia madre, ho visto solo una volta mio padre che stava poco bene". E "mi sono rassegnata, non ho fatto più nulla. Io non potevo scappare con una bimba".

La vita in comunità

"Ho vissuto costantemente con la paura. Il mio unico obiettivo era di non essere allontanata da mia figlia. Così subivi tutto e vivevi con la paura di dire qualcosa di brutto e finire in laboratorio".Paola ricorda ancora le punizioni subite: "Io sono finita alla legna per non aver lavata subito una bavaglietta di mia figlia, dimenticata in lavanderia".

A Fanpage.it, ha anche raccontato di non aver potuto vivere serenamente neanche il momento dell'allattamento: "Lì non puoi allattare in una stanza isolata e tranquillamente. Mi portavano in un magazzino dove ci sono stoffe e vestiti pieni di polvere. In un'occasione, dopo quindici minuti, una vecchia è venuta a rimproverarmi e mi ha detto che non era possibile che ancora non avessi finita. Un'altra volta mi ha staccato la bambina dal mio seno per controllare se avessi ancora latte".

"In quella condizione ho iniziato a star male, volevo solo piangere, ma loro sostenevano che soffrissi di depressione post-partum e mi hanno fatto visitare da uno psichiatra che mi ha prescritto un anti-depressivo. Lo prendevo due volte al giorno. E mi provocava molto sonno".

La figlia di Paola ha vissuto lì i primi anni di vita: "Ha rimosso molti momenti di quel periodo. Ricorda che sparivo durante il giorno e che non mi vedeva per diverse ore".

I controlli dell'Asl

La donna ricorda anche di aver assistito ad alcuni controlli da parte dell'Asl del territorio: "C'è stato un periodo, verso la fine del mio percorso, durante il quale c'è stata una retata delle forze dell'ordine. Hanno perquisito le stanze delle ragazze. Da quella volta, ci sono stati diversi controlli da parte dell'Asl. Ma noi lo venivamo a sapere la sera prima e ci obbligavano a far sparire tutto quello che non si doveva far vedere. A me hanno detto che né io né mia figlia eravamo registrate in comunità, quindi dovevo svuotare l'armadio, togliere i materassi Caricavano tutti su un furgone e dopo li controllo, ci restituivano tutto".

L'uscita dalla comunità

Paola è uscita dalla comunità dopo cinque anni: "È stata mia madre a chiedere alla suora di farmi tornare a casa, anche perché mio padre era peggiorato e voleva poter vivere un po' con la bimba prima di morire. Ha dovuto minacciare di chiamare i carabinieri per farmi uscire. Dopo quella telefonata, mi ha convocata la suora e ha insultato mia madre, dicendomi che era un'ingrata".

"Suor Rosalina mi ha anche detto di chiamare mia madre per dirle che non volevo tornare a casa e che volevo finire il percorso. Mi sono rifiutata e lei ha mandato uno psicologo a tentare di convincermi. Si sono convinti soltanto quando li ho rassicurati sul fatto che non avrei denunciato, come avevano fatto altri".

"Quella stessa sera le consacrate mi hanno detto che la suora aveva deciso di mandarmi via e quindi mi hanno intimato di recuperare le mie cose per partire subito dopo cena. Lei, infatti, non vuole mai far vedere che qualcuno vada via e preferisce buttare fuori le persone. Così può raccontare quello che vuole alle altre e inventare chissà cosa".

Paola spiega anche perché non ha mai denunciato quello che ha subito: "Quando sono andata via, bisognava farmela pagare e così la suora ha avvisato i servizi sociali del mio paese, dicendo loro che che ero andata via dalla comunità con una minore anche se, secondo lei, non ero ancora idonea a fare la madre. Ho avuto i servizi sociali addosso per diverso tempo".

Quell'esperienza l'ha traumatizzata per sempre: "ancora oggi mi vengono degli attacchi di panico. Mi è rimasta una fobia sociale. E spesso mi capita di sognare di essere ancora lì e di non riuscire a scappare via".

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