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Shalom, la comunità degli orrori: “Qui ci curano con violenze, psicofarmaci e preghiere”

“Violenze, vessazioni e punizioni di ogni genere”, è il racconto terribile degli ex ospiti della comunità Shalom in provincia di Brescia che ogni anno accoglie più di 250 ragazzi, anche minorenni, con passati difficili alle spalle, e che vengono sottoposti alla “cristoterapia”, un metodo inventato da Suor Rosalina Ravasio, la fondatrice di questa comunità.
A cura di Backstair
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A cura di Cristiana Mastronicola

La comunità Shalom sorge a metà strada tra Brescia e Bergamo, nascosta nelle campagne di Palazzolo sull’Oglio. È una comunità di recupero per tossicodipendenti e ogni anno ospita circa 250 persone. "Shalom" in ebraico significa “pace”, ma per centinaia di ragazze e ragazzi questa comunità ha significato violenze di ogni tipo: psicologiche, verbali e fisiche. Secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, gli insulti e i maltrattamenti sarebbero una parte integrante del metodo messo a punto dalla fondatrice di questa comunità, suor Rosalina Ravasio.

Il team Backstair di Fanpage.it, dopo aver raccolto 13 testimonianze di persone che per la maggior parte non si conoscono tra di loro e che dentro questa comunità ci hanno vissuto in anni diversi e che raccontano violenze e punizioni ai limiti dell’immaginazione,  si è infiltrato dentro la comunità per scoprire la vera natura di Shalom, quella che fino ad ora è riuscita a rimanere lontano dai riflettori, sia dei media che della magistratura.

Gli episodi dell’inchiesta
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La comunità Shalom in quasi 40 anni di attività ha ospitato migliaia di persone provenienti da tutta Italia, soprattutto Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, ma anche Lazio e Campania. A fondarla, sul finire degli anni ‘80, quando l’Italia si trovava a fare i conti con il boom dell’eroina, è stata una suora. Il suo nome è suor Rosalina Ravasio e Shalom è una sua creatura.

La comunità di recupero dei vip

Suor Rosalina nel tempo si è fatta conoscere, intessendo rapporti col potere locale ed ecclesiale. Nei pochi giorni all’anno in cui la comunità si apre all’esterno, i saloni di Shalom sono frequentati da sindaci e consiglieri dei comuni vicini, magistrati, poliziotti fuori servizio, facoltosi imprenditori locali, uomini e donne di fede. Ma Suor Rosalina con la sua attività pluridecennale è riuscita ad andare ben oltre i confini della provincia bresciana, attirando anche personaggi di spicco.

Sono tanti i volti noti che hanno frequentato e frequentano la comunità.  Il commissario tecnico della nazionale di calcio italiana, Roberto Mancini, è stato alla Shalom più volte, l'ultima durante le festività pasquali del 2023. Suor Rosalina sostiene addirittura che nel 2019 avrebbe profetizzato la vittoria degli Europei, perché Mancini sarebbe stato protetto dalla Madonna. Grazie a questo rapporto i ragazzi della comunità hanno avuto la possibilità di disputare una partita contro la nazionale cantanti. Poi ci sono Marco Masini e Francesco Renga, che in più occasioni hanno fatto visita alla suora e alla sua comunità, Giuseppe Povia che ha cantato in diversi concerti organizzati da suor Rosalina, e Luisa Corna, originaria di Palazzolo e sorella di una delle volontarie della comunità, che ha deciso addirittura di sposarsi all’interno di Shalom, lasciando l’organizzazione delle sue nozze proprio a Suor Rosalina.

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"Suor Rosalina è Dio"

Il primo impatto con la comunità Shalom viene descritto da molti in maniera positiva, un luogo in cui i ragazzi che hanno rischiato di perdere la retta via, hanno ritrovato quella diritta grazie alla preghiera e alla pedagogia di Suor Rosalina.  "Quando arrivi sembra di ritrovarti in una piccola oasi, – raccontano gli ex ospiti – ma la sensazione paradisiaca dura poco". Chi ha vissuto la vita di comunità di Shalom ha parare discordati sulla sua fondatrice. "Suor Rosalina è Dio", raccontano alcuni. Altri la descrivono come autoritaria e dispotica: “È una manipolatrice, una persona che con la religione non ha nulla a che fare”, ci dice una persona che per anni è stata a stretto contatto con lei e che ora vuole prenderne le distanze.

Un ex ospite, entrato minorenne e uscito dopo tre anni ha un ricordo da incubo del periodo alla Shalom: “Questa comunità sembra un mondo utopico, che vive di provvidenza, dove i ragazzi stanno benissimo e sono sempre sorridenti, dove avvengono i miracoli: entri con un problema ed esci guarito. Ma nessuno dice la verità, cioè che chi esce da lì i problemi ce li ha ancora. Le persone non sanno quello che succede davvero lì dentro”.

L’infiltrazione

Per vedere con i nostri occhi quello che succede dentro le mura di questo posto decidiamo di infiltrarci dicendoci interessati a lavorare come volontari dentro la struttura. Ci mettiamo in contatto con il braccio destro della fondatrice, che ci invita a far visita alla comunità, promettendoci un incontro con suor Rosalina. È lei a decidere chi può entrare e chi no, dopo aver sostenuto un colloquio.

Ad accoglierci al nostro arrivo troviamo un ragazzo che ci presenta la comunità come una piccola città: c’è la zona lavoro con i laboratori e quella ristoro, con la sala da pranzo. Gli animali che scorrazzano e il giardino curato contribuiscono a rendere questo posto delizioso e accogliente.

Quando ci sediamo con suor Rosalina, lei inizia a farci molte domande sulla nostra vita privata, sulla presenza di Dio nella nostra quotidianità, sul rapporto con i genitori e sulle nostre frequentazioni. Su questo punto le raccontiamo di essere appena usciti da una relazione tossica e questo basta per farci sentire in colpa: “Hai fatto la stronza”, ci dice, “hai sbagliato, ma adesso fidati di Dio”. Così prima ci invita a restare a cena e poi a lavorare dentro Shalom come volontari.

Varcare il cancello di Shalom significa lasciare fuori tutta la propria vita.  “Appena sono arrivato, dopo un colloquio, mi hanno chiesto di togliermi i vestiti”, ci racconta un ex ospite. Proprio come in una struttura detentiva, agli ospiti viene eseguita una perquisizione corporale. Le valigie possono essere ammesse solo dopo una minuziosa analisi. “Vogliono controllare che non porti dentro delle sostanze, per questo ti chiedono di fare anche dei piegamenti per controllare nelle tue parti intime. Ho dovuto farlo davanti a venti persone”, continua il racconto.

Ma l’ingresso alla Shalom può essere anche più traumatico. Uno dei testimoni che abbiamo ascoltato è rimasto dentro la comunità di suor Rosalina per sei anni: “Il mio ingresso è stato un pestaggio allucinante. Avevo 17 anni, ero arrabbiato, non volevo stare lì e ho urlato contro la suora: mi sono saltati addosso in sette e hanno iniziato a darmi calci e pugni, senza che lei muovesse un dito. Si è tolta una ciabatta e me l’ha data in testa. Da quel giorno mi hanno tolto le scarpe e sono stato in calzini da ottobre a gennaio, in ciabatte, con la neve. Avevo sempre i piedi viola. In quel momento ho capito che dovevo stare al mio posto e così ho fatto per i successivi sei anni”.

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Passata la perquisizione, l’ospite viene accompagnato nella camerata dove dormirà: “Le stanze sono da 8-10 persone, sono tutti letti a castello e non riesci nemmeno ad alzare la testa per quanto sono stretti gli spazi. Dormi chiusa a chiave di notte e la chiave ce l’ha la responsabile della camera, ogni volta che devi andare in bagno devi chiedere il permesso e farti aprire,” – spiega un ex ospite – “a ogni giovane appena entrato assegnano un ‘vecchio’ personale, che ti segue per i primi mesi. Ti seguiva anche in bagno e dovevi lasciare la porta aperta”.

La gerarchia interna

I “vecchi” di cui parlano i testimoni sono un pezzo della rigida gerarchia ideata da Suor Rosalina. Gli “gnari” (i giovani, in dialetto bresciano) sono gli ultimi arrivati. I “mezzani” sono gli ospiti arrivati da un anno, un anno e mezzo e ai quali la suora inizia a dare delle responsabilità. I “vecchi" sono persone che sono arrivate in comunità almeno da cinque anni e godono di una particolare fiducia da parte della suora, tanto da avere ruoli di organizzazione e controllo dentro la comunità. “In comunità non si muove nulla senza che suor Rosalina lo sappia”, ci raccontano i testimoni. Ma quando suor Rosalina non c’è, sono i vecchi e le altre consacrate a prendere il suo posto: “Dopo sette, otto anni che sono lì dentro, i vecchi diventano la fotocopia della suora”, ci racconta una ex ospite. È a loro che è affidata la cura e la gestione degli ospiti, nonostante siano essi stessi ancora ospiti della comunità, quindi nel bel mezzo di quello che dovrebbe essere percorso terapeutico. “Le vecchie e le mezzane sono responsabili di altri ospiti, senza avere nessun titolo e nessuna formazione per farlo”.

Gli "ospiti parcheggiati"

Sul sito della comunità si legge che Shalom è una “comunità di vita” che dal 1986 si occupa della "riabilitazione e reinserimento sociale dei tossicodipendenti con patologie associate”. Eppure, dentro Shalom incontriamo tantissime persone che con la tossicodipendenza non hanno nulla a che fare. È una delle consacrate, braccio destro di suor Rosalina, a dirci che dentro la comunità oltre alle persone con dipendenza da sostanze e da alcol, ci sono persone con problematiche di tutti i tipi: persone con disturbi alimentari, persone affette da patologie psichiatriche, minori con problemi relazionali e condannati che a Shalom scontano parte della loro pena.

Una delle ragazze con cui entriamo in contatto ci dice di essere arrivata a Shalom perché depressa: “Ho fallito il mio obiettivo di vita, sono caduta in depressione e i miei genitori mi hanno portato qui. Sono maggiorenne, ma mi hanno trattenuta contro la mia volontà”. Un’altra donna, invece, è arrivata in comunità più di dieci anni fa per una depressione post partum: “Se non fossi venuta qui, mi avrebbero tolto la bambina”. Andrea Abbruzzese, ex ospite che in comunità è rimasto nove mesi, dal settembre 2019 al giugno 2020, ci racconta di essere finito a Shalom perché affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo: “Lo scaricavo nei vestiti, ne compravo tantissimi. Una sera sono tornato a casa con 3mila euro di cappotti, mia madre non ci capì più nulla e mi mandò in questa comunità”. Un ex ospite, che dentro la comunità ha vissuto sei anni, spiega bene la convivenza difficile tra persone con diverse patologie: “I ragazzi che lo Stato o le famiglie non riescono più a gestire vengono scaricati lì, sono parcheggiati”.

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Le condizioni di vita nella struttura

La vita all'interno della comunità non è semplice. “Nelle stanze non c’era il riscaldamento, – ci dicono – io ho vissuto due inverni lì dentro, non esisteva il riscaldamento. Intanto che lavori noi avevamo i guanti senza dita, quindi avevamo tutte le mani spaccate. I geloni ai piedi e poi durante il pranzo e la cena naturalmente a tavola il piumino non si poteva tenere, si doveva togliere anche il giubbetto”

Gli ospiti raccontano di essere stati costretti a mangiare cibo scaduto, come è stato documentato anche dai carabinieri nel 2012, a razionare le sigarette (tre al giorno per gli uomini, zero per le donne, che non possono fumare) e perfino a non ascoltare la musica: “Solo musica sacra, a volte però quando uscivamo, convincevamo un vecchio e di nascosto per qualche minuto ascoltavamo la radio”, ci dice un ragazzo raccontando gli episodi come momenti di conquista e trasgressione. Tutto questo rientra nell’idea di sacrificio e penitenza che la suora ha del percorso di terapia.

La Cristoterapia, lavoro e preghiera

Il metodo terapeutico elaborato dalla suora per tutte queste diverse patologie è solo uno: si chiama “cristoterapia”. Le testimonianze parlano di giornate intere scandite da salmi e preghiere: “Se la suora sapeva che non pregavi, ti insultava in tutti i modi”, “la preghiera è obbligatoria”, "in Shalom si sta in ginocchio anche per quattro ore di seguito a fare le adorazioni, persino i bambini sono costretti a farlo". Anche durante la nostra infiltrazione ci rendiamo conto sin da subito che qui la fede è imprescindibile. In uno dei laboratori in cui le ragazze lavorano, una delle vecchie ci spiega che tutti qui devono seguire la cristoterapia, la terapia della fede. E, infatti, anche mentre lavorano, le ragazze sono quasi assenti, assorte nella loro litania di preghiere e canti religiosi. Il lavoro meccanico che devono compiere sommato ai rosari da recitare per ore e ore, restituisce un senso di alienazione: “Pregare, lavorare e basta, tutto il giorno, dodici ore”, ci dice una ex ospite.

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Le punizioni come cura

I laboratori dentro la Shalom assumono un valore diverso rispetto agli spazi in cui nelle altre comunità si pratica l’ergoterapia, cioè il lavoro manuale e meccanico inteso in senso terapeutico. I laboratori, dentro Shalom, assumono una valenza diversa: quella di luoghi di punizione. “Per la punizione vai in laboratorio e ci resti un mese, un mese e mezzo. Tutto il giorno sei lì, senza avere nemmeno i dieci minuti di pausa per i pasti. Io andavo in laboratorio dalle otto di mattina alle otto di sera a fare le guarnizioni, al freddo e al gelo, senza riscaldamento, senza nessun tipo di confort. La tua vita era lì, a fare le guarnizioni”, ci racconta una ex ospite che a Shalom è rimasta 18 mesi. I ragazzi vengono distribuiti nei diversi laboratori non in base al tipo di terapia che dovrebbero affrontare, ma alla gravità della punizione che le suore decidono di imporgli. "In questa comunità tutto dipende se ti pieghi o no alle regole, dove la regola numero 1 è che se non rispetti le regole finisci in punizione," ci raccontano gli ex ospiti.

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L'ideologia che sta alla base di questa proposta terapeutica è ben riassunta da una delle suore che ci spiega durante il periodo in cui siamo infiltrati nella comunità: "L’educazione è sempre correttiva, del tipo ‘bastone e carota', non ti deve dispiacere per queste persone, sono così perché hanno voluto ridursi così, non sono state sfortunate, adesso pagano le conseguenze. Non sono degli agnellini, loro sono delle canaglie che cerchiamo di trasformare e di smettere di fare le stronze e le tossiche".

“Una volta per sbaglio ho lasciato un rubinetto aperto, quando la suora l’ha saputo ci ha vietato per un mese di fare la doccia”, ci confidano le ragazze mentre lavorano alle grucce. “Se sbagli, ad esempio mangi una caramella in più o prendi un panino che non ti spetta, puoi saltare il dolce o il caffè o il film”, ci spiegano le ragazze che ci fanno capire che dentro la comunità la punizione fa parte di uno dei metodi correttivi: “Per loro non è una punizione, è una cura, perché è come se dicessero ‘questa cosa noi la facciamo per lui’”, ci chiarisce uno degli ex ospiti.

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"Finivi in punizione per un nonnulla", – ci spiegano ancora – “ad esempio noi dovevamo mettere l’intimo lavato sul bordo del letto ad asciugare, coperto da una salvietta perché le altre ragazze non dovevano guardare. Se tu lasciavi scoperto l’intimo eri in punizione”.

Sono diversi i tipi di punizione che vengono perpetrati dentro i laboratori, tra questi c'è quello del silenzio. Durante il nostro soggiorno in comunità vediamo spesso delle ragazze in un angolo: faccia al muro, isolate dal resto del gruppo. A spiegarci di che si tratta è una delle vecchie che sorveglia le ragazze: “Sono in un momento di riflessione. Devono riflettere perché hanno usato male le loro lingue”. Questa riflessione prevede un periodo di isolamento, come confermato da diversi altri testimoni, nonostante sul regolamento della comunità sia scritto nero su bianco che “È proibita ogni forma di isolamento: la vita comunitaria si basa sulla piena condivisione delle fatiche che ognuno affronta e sui risultati positivi che esse comportano”.

A raccontarci del silenzio è anche un’altra ospite che incontriamo durante la nostra permanenza dentro Shalom: nonostante una delle regole della comunità sia quella di non parlare della propria vita, del proprio passato né di quello che succede in comunità, questa ragazza si confida e ci parla di un’altra punizione, quella della privazione del sonno: “Le altre vanno a dormire prima e tu resti in laboratorio, con una vecchia che controlla. L’ho fatto per due mesetti, perché una volta si era intasato il tubo del lavandino e ho cercato di stapparlo da sola, invece avrei dovuto avvisare una responsabile del bagno. Hanno voluto punire la mia presunzione”.

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Un'altra punizione è quella della "carriola". "Una delle punizioni più praticate e pesanti è quella della carriola", ci raccontano. Viene inflitta alla legnaia, una zona all’aperto lontana dagli altri laboratori, dove finisce “chi l’ha combinata davvero grossa”, come ci dice una delle consacrate. Assistiamo in prima persona a questa punizione, durante un torrido pomeriggio di agosto, e alla cosiddetta legnaia, vediamo una ragazza trascinare stanca una carriola piena di sassi sotto il sole cocente girando in tondo senza mai fermarsi.

L'utilizzo degli psicofarmaci

Molti ex ospiti ci hanno denunciato che dentro la Shalom sono stati sottoposti a terapie farmacologiche molto pesanti. “Tremavo, mi ero gonfiato tutto, non riuscivo a stare in piedi. Di notte mi facevo le feci addosso perché non mi svegliavo con lo stimolo” – ci dice un ex ospite, che dentro Shalom è rimasto sei anni. È sempre questo ospite a rivelarci dell’esistenza di uno psichiatra – incaricato di prescrivere gli psicofarmaci e seguire gli ospiti – particolarmente temuto: “Questo medico ci dava una cura che ci piegava. Lo chiamavamo il "dottor Morte", perché ogni volta faceva le battute ‘state tranquilli che questo rompicoglioni ve lo sistemo io’”. Queste terapie sono continuate dopo che il medico soprannominato dagli ospiti "dottor Morte" ha smesso di fare il volontario alla Shalom.

Ce lo racconta un’altra ex ospite: "Prendere 150 gocce di valium, 50 al mattino, 50 al pomeriggio e 50 la sera, più sei di propixolo al mattino, sei al pomeriggio e 12 alla sera, più due pasticche alla sera. La gente non mi capiva quando parlavo, sbavavo, quando mangiavo mi cadeva il cibo dalla bocca". O ancora: “Mi dicevano che ero fragile e non mi sospendevano la terapia: sono uscita dalla Shalom con una terapia da cavallo. Loro ti devono sedare perché altrimenti ti ribelli e quindi ti tengono in questo stato di semincoscienza”.

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Gli psicofarmaci, a differenza di come previsto dai regolamenti, alla Shalom non vengono somministrati da operatori sanitari ma dai cosiddetti “vecchi”, ovvero dai pazienti più anziani della comunità. "In fila, prendevi la tua terapia, aprivi la bocca per far vedere che l’avevi deglutita". I vecchi però non hanno una formazione di nessun tipo per svolgere questo ruolo, tanto che ogni tanto sono successi degli incidenti. "Una volta una ragazza aveva preso una doppia dose di Entumin, la sua temperatura corporea era scesa sotto i 33 gradi". Durante la nostra permanenza in comunità, abbiamo potuto assistire più volte alla somministrazione della terapia farmacologica da parte dei cosiddetto vecchi.

Tentare la fuga

Anche se nel regolamento la comunità garantisce il “diritto alla libertà personale (di poter abbandonare la Comunità)”, tutti gli ex ospiti che abbiamo sentito, raccontano che dentro Shalom si fa di tutto per rendere difficile uscire dalla comunità. “Anche se scappavi, ti venivano a trovare a casa: questo perché se uno scappa, avrebbe dato l'impulso a scappare ad altri dieci, quindi cercavano di impedirti di andare via in qualsiasi modo”, spiega un ex ospite. Sono stati tanti gli ospiti che hanno tentato la fuga negli anni, ma se provavi a scappare le conseguenze potevano essere terribili.

“Volevo provare a uscire”, ci dice uno degli ex ospiti, che già aveva provato a farsi portare fuori dalla comunità praticandosi atti di autolesionismo. “Ho preso una paletta di metallo nel laboratorio e ho spaccato una finestra. A quel punto sono arrivati molti vecchi della comunità, mi portano fuori, alla legnaia. Lì c’erano anche delle telecamere, ma uno dei vecchi ha detto ‘portatelo lì, in quell’angolo, perché lì le telecamere non lo prendono’. Mi hanno messo in un gabbiotto di legno e me le hanno date di santa ragione. Volevano darmi le medicine, ma ho detto di no e mi hanno colpito varie volte con il bastone. A salvarmi dalle altre botte è stato l’arrivo dei miei genitori, che però hanno dato ragione ai vecchi. A quel punto non ci ho visto più e ho iniziato a dare di matto, tanto che hanno chiamato l’ambulanza. Mi portano alla fine all’ospedale, dove mi refertano tutti i lividi, mi fanno parlare con lo psichiatra a cui spiego tutto e lui mi dice che mi deve far parlare con i carabinieri. E così sono riuscito a uscire”. Sul referto di questo ex ospite, di cui siamo entrati in possesso, è allegata una foto degli ematomi presenti sul corpo. Sul documento si legge: “Riferisce di non voler contattare i genitori e di non voler più far ritorno alla comunità. Presenta ecchimosi agli arti superiori e regione lombare, abrasioni cutanee diffuse”.

Di storie di fughe ne abbiamo raccolte molte, come quella di questo ex ospite, rimasto sei anni in comunità: “Ero diventato un vecchio, avevo io la responsabilità della mia camerata. Da tempo avevo deciso di lasciare la comunità, ma la suora non voleva assolutamente che me ne andassi, così una notte ho preparato le mie cose e sono scappato. Ho percorso venti chilometri a piedi, di notte, senza documenti. Per due giorni ho vagato senza meta, poi ho chiamato mia madre e le ho detto che sarei tornato solo se non mi avesse riportato lì. I miei mi hanno nascosto nella casa di un parente e l’hanno dovuto fare per giorni e giorni, perché la suora per una settimana intera ha mandato delle persone a cercarmi”.

Una volta fuori, questo ex ospite inizia a pubblicare sui social alcuni articoli contro la comunità: “Suor Rosalina ha chiamato a casa dei miei genitori: Io vi rovino, non dovete permettergli di pubblicare queste cose. Vi denuncio per diffamazione”. Le parole della suora fanno presa sui genitori e sull’ex ospite che, intimidito, non scriverà né dirà più nulla contro la comunità. Fino a oggi, quando decide di parlare, ma lo farà scegliendo l’anonimato, per paura delle ritorsioni : “Lei è davvero molto potente2.

Dentro la comunità ai tentativi di fuga si sommano gli episodi di autolesionismo: “Ho visto con i miei occhi un ragazzo affetto da bipolarismo buttarsi in un fusto in cui bruciava della legna, e l’ha fatto dicendo che voleva crearsi delle ustioni per suscitare pietà negli altri. E persone con queste problematiche non erano seguite da uno psichiatra, che veniva come volontario quando aveva tempo. E invece questi ragazzi erano abbandonati a loro stessi e a noi che vecchi che dovevamo gestirli”.

I bambini all'interno

Dentro Shalom, oltre alle persone con problemi di dipendenze, a quelle affette da patologie psichiatriche e da disturbi alimentari, c’è anche il gruppo delle mamme con i loro bambini, costretti, tutti, a sottostare alle stesse regole. “Se tu crei un problema, anche se sei mamma, vieni mandata in punizione e subisci la punizione”. A parlare è una ex ospite della comunità, scappata dal compagno violento e arrivata in comunità con una bambina e incinta di qualche mese. “Sono stata in punizione più volte: una volta, incinta di 4 mesi, solo perché avevo chiesto di essere dimessa dalla comunità, convinta che quel posto non fosse quello giusto in cui far crescere le mie bambine. Mi hanno isolata alla legnaia, in punizione stretta, dovevo lavorare in piedi alle guarnizioni. Quando venivo messa in punizione, la mia bambina, che aveva pochi anni, era affidata a un’altra mamma ospite della comunità. Mia figlia non mi ha visto per quattro mesi, è stata allontanata da me e potevo vederla solo di notte, mentre dormiva”. “Quando dovevo partorire, – racconta – sono stata costretta a partorire in un ospedale scelto da loro. Qui avevo una sentinella, una vecchia della comunità, che è stata in camera con me giorno e notte per controllare quello che facevo e soprattutto quello che dicevo al personale dell’ospedale. Volevano persino che il braccio destro della suora, un uomo, entrasse in sala parto con me”. La donna riesce, però, a chiamare le sorelle con uno stratagemma e ad evitarlo, ma una volta tornata in comunità per lei non ci sarà nessuna festa: “Ho chiesto ancora le dimissioni dopo il parto e sono stata umiliata. La suora ha detto davanti a tutti che la mia bambina era nata in astinenza da uno psicofarmaco”.

I bambini dentro Shalom vivono un’infanzia a metà: vanno a scuola e poi tornano in comunità, la loro vita si esaurisce qui. Non possono dedicarsi a nessun tipo di sport, nessuna festa di compleanno degli amichetti. Dentro Shalom incontriamo una donna arrivata con la sua bambina dieci anni fa. Oggi quella bambina ha 12 anni e vive come vivono le altre donne della comunità. È lei stessa a parlarci delle difficoltà che le aspetterà fuori una volta che la suora deciderà che potranno lasciare Shalom: “Quando usciremo da qui, dovrò affrontare anche questo problema con lei, che non conosce la realtà esterna. Purtroppo vivendo qua, lei non capisce il valore delle cose”. La preoccupazione di non farcela fuori è un sentimento comune che riconosciamo in molte delle persone che incontriamo dentro la comunità: “Non so se sarà in grado, ho paura”, ci ripete una ragazza che di lì a qualche mese avrà il permesso di uscire gradualmente dopo anni di comunità, per andare a lavorare in un luogo scelto dalla suora.

Punizioni e pestaggi

La violenza psicologica non è il solo tipo di violenza a consumarsi tra le mura della Shalom.  “Tutte le botte che ho visto lì dentro non le ho mai viste fuori. Quando un ragazzo problematico dava problemi, arrivava prima la suora e poi ti portavano alla legnaia e ti picchiavano gli altri ragazzi”. È la legnaia il luogo dove gli ex ospiti raccontano di aver subito violenze fisiche dai cosiddetti "vecchi". Come ci spiega un ex vecchio, diventare violenti era questione di sopravvivenza: “Dovevi far rispettare le punizioni, non avevi scelta, era un ordine che dovevi assolutamente eseguire, altrimenti sarebbe successa la stessa cosa a te. La mentalità del posto ti faceva diventare una persona violenta”. Gli ex ospiti ci raccontano di veri e propri pestaggi, all’ordine del giorno se si disobbediva: “Quando mi rifiutavo di fare quello che mi ordinavano di fare, venivo picchiato. A volte per punizione dovevo rimanere sveglio di notte a lavorare, ma succedeva che a volte per la stanchezza non riuscissi a tenere gli occhi aperti, allora mi prendevano la testa e me la fracassavano sul tavolo. Era un’agonia”.

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A testimoniarlo queste violenze fisiche è anche un video di cui Backstair è entrato in possesso – girato dai carabinieri nel 2012 – in cui si vede un uomo trasportato di peso da quattro persone e poi malmenato da uno dei "vecchi". Eppure nel regolamento della comunità si legge esplicitamente che dentro Shalom “è proibita ogni forma di violenza e prepotenza fisica e la violenza verbale deve essere adeguatamente discussa e verificata”.

LA FAMIGLIA COME SPETTATRICE PASSIVA

Le violenze dentro Shalom restano nascoste al mondo fuori. Gli ospiti per i primi sei mesi non hanno il permesso di incontrare i propri familiari, dal sesto mese in poi le famiglie possono entrare in comunità solo una volta al mese. Anche in quei casi ci sono i vecchi a controllare gli incontri. "La pressione psicologica è talmente forte che nessuno osa rivelare la verità", ci dicono. “Un genitore si taglia le vene per non avere il figlio tossico, lei fa leva su questo e fa fare ai genitori tutto quello che vuole”, ci dice un ospite. “Io parlavo con mio padre e gli dicevo quello che passavo lì dentro e lui non mi ascoltava, – racconta un altro ragazzo –  non mi credeva, perché era abbindolato dalla suora. Lei parla con i genitori e li persuade che quelle che raccontiamo sono bugie, perché siamo solo dei tossicodipendenti”. “Quando ero dentro ripetevo che volevo uscire, – dice un altro – allora la suora ha chiamato mio padre e gli ha detto di venire. Appena l’ho visto, non mi ha salutata, mi ha dato uno schiaffo. Sono rimasta senza parole lì per lì, solo dopo mi ha spiegato che la suora gli aveva detto di darmi uno schiaffo per farmi capire che stavo sbagliando a voler andare via, che quello schiaffo era per il mio bene”.

La famiglia rimane quindi spettatrice passiva di quello che vedeva durante gli incontri. A confermarlo è la madre di una ex ospite: “La famiglia veniva estromessa da qualsiasi progetto educativo, se non per ascoltare le reprimende della suora, le sue accuse”. E questo perché per la suora “la famiglia era considerata la causa di questo sfacelo che era il ragazzo in questione e doveva assistere e ringraziare che ci fosse la struttura che avrebbe potuto salvare la vita degli ospiti”. Eppure suor Rosalina ha sempre parlato del ruolo della famiglia come determinante per la riuscita del percorso, tanto da vantare veri e propri percorsi paralleli con i familiari. Racconta una madre di un'ospite: “Anche noi familiari eravamo sottoposti a delle punizioni. Se per esempio una certa domenica veniva organizzato un incontro, ma una determinata persona doveva essere punita, quei familiari non venivano invitati, a pura discrezione della suora, e questo significava dover aspettare un altro mese per poter vedere un proprio caro. Ti sei comportato male? L’incontro con i genitori salta”. Quello che racconta questa madre è che la figlia, dopo tutti quegli anni in Shalom, è uscita “piena di rabbia e senza gli strumenti per affrontare la vita. Alla fine del percorso, la famiglia si ritrova di nuovo a dover combattere, con la consapevolezza di aver buttato all’aria tanti anni”.

“Io sono sulla terra da 34 anni, – racconta un ex ospite uscito da Shalom 10 anni fa – ma sei anni me li hanno rubati. Quello che mi fa male, dopo anni che sono uscito, è che lei ci fa passare per bugiardi. A raccontarti queste cose mi trema la voce, è un trauma. Ancora oggi mi succede che, almeno due o tre volte al mese, sogno di tornare in comunità a trovare gli altri ragazzi e pensare ‘adesso torno a casa'. Poi mi rendo conto di non riuscire a scappare e mi dispero”. Il trauma di questa persona è quello di tanti ex ospiti che ancora oggi convivono con il fantasma della Shalom, la rabbia per aver sprecato anni di vita e la frustrazione per non essere riusciti a riscattarsi. “Non voglio vendetta – ci dice ancora – vorrei solo che nessun altro passasse l’inferno che ho passato io”.

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