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‘Ndrangheta a Lecco, il camion di materiale radioattivo “da Chernobyl” che ha incastrato i boss

Il boss di Lecco Cosimo Vallelonga, finito in manette per la seconda vola della maxi operazione di ieri 9 febbraio, gestiva un traffico illegale di materiale radioattivo tanto che durante una intercettazione finita nelle carte della Procura un suo fedelissimo commentava così la merce: “Do per scontato che la roba è italiana… ma fatta arrivare da dove? In cavi da Chernobyl per avere una radioattività del genere?”. Ora la Procura svela un sistema di documenti falsi che seguivano passo per passo i rottami e li rendevano legali evitando così costi ben più alti per lo smaltimento. Segno che i boss, oltre al mercato degli stupefacenti, oggi puntano su altri mercati.
A cura di Giorgia Venturini
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"Per il nostro tipo di attività il massimo sarebbe mettere su un impianto tutto nostro. Perché i soldi si fanno con la cocaina ma non c'è solo questa". Bastano poche parole scambiate tra un pluri pregiudicato e il boss di Lecco Cosimo Vallelonga finito ieri nel mirino della maxi operazione della polizia che ha portato all'arresto in tutta Italia di 160 persone coinvolte nel mercato degli stupefacenti. Ma come ricorda una delle persone intercettate nell'ambito dell'inchiesta a Vallelonga c'è anche altro: "Oggi abbiamo un settore come quello dei metalli. Ieri ne hanno arrestati venti, l'altro ieri trenta. Tutti i giorni, tutti i giorni. No perché adesso sono più con i metalli che con la cocaina", si legge in una delle intercettazioni riportate sulle carte della Procura di Milano.

Vallelonga uscito dal carcere ritorna a fare affari illegali

Ed è proprio nel mercato dei metalli pericolosi che il boss Vallelonga, una volta scontata una pena al 416 bis, ha ripreso in mano i suoi affari illegali dove li aveva lasciati: questa volta però, insieme al fedelissimo Vincenzo Marchio, figlio di Pierino Marchio – condannato nell'operazione "Oversize" perché ritenuto uomo di punta della ‘ndrangheta a Lecco e della storica famiglia criminale lecchese Trovato -, il boss lecchese è riuscito a creare un sistema di società nel ramo dello smaltimento dei metalli che guadagnano soldi fatturando affari mai realizzati o peggio, smaltendo illecitamente i rifiuti ferrosi. Per cercare di sfuggire ai controlli avevano messo in piedi un sistema di documenti falsi che seguivano passo per passo i rottami e li rendevano legali evitando così costi ben più alti per lo smaltimento.

Il tir carico di materiale radioattivo

Affari che per il boss cadono a picco il 2 maggio del 2018 quando un tir con 16 tonnellate di materiale radioattivo illegale viene fermato per un controllo di polizia durante il suo viaggio da una società di Brescia, dove aveva caricato il materiale, a una ditta di Arcore, in provincia di Monza e Brianza, per conto della All Metall, la società riconducibile a Marchio e a Vallelonga. Alla guida del camion c'è Benedetto Parisi, seguito subito dietro dall'intermediario Fabrizio Motta. I due per tutto il viaggio stanno sempre in contatto, preoccupati di un possibile controllo. Motta infatti a un certo punto avvisa Parisi avvisandolo che il telo è messo male e si vede la merce: "Non è che uno vede dietro i sacchi e per una stronzata ti ferma? (…) Perché se fanno il controllo del materiale mi mettono in galera", si sente l'intermediario ripetere in una intercettazione. La situazione precipita quando Parisi comunica a Motta: "Mi hanno fermato sono nella m***a". E a far crollare il "sistema" è proprio l'alta radioattività del materiale: "Do per scontato che la roba è italiana… ma fatta arrivare da dove? In cavi da Chernobyl per avere una radioattività del genere?", aveva detto preoccupato Motta qualche ora prima confidandosi con un suo fedelissimo.

Il legame tra il boss e l'intermediario Motta

Due giorni dopo, Motta veniva ancora intercettato mentre cercava di chiudere i suoi conti con il boss Vallelonga dicendosi stanco della sua situazione professionale, una parte ormai pregiudicata dopo il sequestro del materiale radioattivo: "A me si attaccano al c**o ste teste di c**o (riferito alle forze dell'ordine), mi interessa basta fuori dai c******i. Cosimo questi sono i suoi 200. Basta, mi faccia un favore: io le voglio bene ma si tenga lontano da me". Da queste parole gli inquirenti erano riusciti a risalire che l'entità del debito che Motta aveva contratto con il boss, ovvero 200mila euro. Il legame e la preoccupazione dell'intermediario era poi stato anche registrato in un colloquio telefonico con la moglie.

Il supporto di professionisti

Il sistema illegale reggeva con il supporto anche di professionisti, per lo più notai e avvocati, a cui il boss si affidava per avere consigli su come e quando dichiarare il fallimento di una società e aprirne un'altra: a capo di queste ditte, spesso, c'erano prestanomi e zero documentazione societaria perché il boss si serviva solo dei loro conti correnti. Un sistema, quello di società fantasma, su cui ormai la ‘ndrangheta punta già da tempo. Senza contare che la criminalità organizzata a Lecco ha costruito un solido sodalizio mafioso ormai dai tempi della famiglia di Coco Trovato, il boss indiscusso della Brianza Lecchese negli anni Ottanta e Novanta. Poi le sue redini criminali sono passate nelle mani dei suoi giovani fedelissimi.

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