“Mio padre ha trovato lavoro e imparato l’italiano con il Leoncavallo, senza non sarei nata”: la storia di Rajaa

"Quando mio padre è arrivato a Milano nel 1989 era solo, non conosceva la lingua e non aveva un lavoro. Al Leoncavallo ha trovato persone disposte ad aiutarlo senza chiedere nulla in cambio. Così è riuscito a inserirsi nella società, ha conosciuto la donna che è diventata sua moglie e tre anni dopo sono nata io". Questa è la storia di Rajaa, una ragazza italiana di seconda generazione attiva nel centro sociale Lambretta e che ha voluto raccontare a Fanpage.it ciò che il Leoncavallo ha rappresentato per molte persone come suo padre per quasi 50 anni: "È stato un luogo aperto a tutti, dove chiunque poteva trovare un sostegno, aiutare gli altri ed essere finalmente protagonista della propria vita".
Com'era Milano quando tuo padre aveva deciso di trasferirsi qui?
Non molto diversa da quella di oggi, in realtà. Mio padre era partito dal Maghreb per andare in Francia. Era un atleta professionista e pensava che Parigi avrebbe potuto aprirgli la giusta strada per la sua carriera. Poi nel 1989 ha deciso di trasferirsi in Italia e Milano gli era sembrata la scelta migliore. Non conosceva nessuno allora, nemmeno la lingua, e trovare un lavoro era quasi impossibile. Un po' come succede ancora in molte situazioni, soprattutto nelle aree più periferiche della città.
Ed è qui che si inserisce il Leoncavallo.
A quei tempi il centro sociale era ancora in via Leoncavallo, in zona Casoretto. Là mio padre ha conosciuto compagne e compagni che lo hanno aiutato concretamente. Nei primi tempi gli davano da mangiare, poi ha potuto frequentare la scuola di italiano e ancora grazie a loro in breve tempo ha trovato lavoro. Poi ha incontrato mia madre e sono nata io.
Quando lo scorso 21 agosto il Leoncavallo è stato sgomberato da carabinieri e polizia, molti hanno affermato che le funzioni sociali svolte dal centro, come appunto la scuola di italiano e la ricerca di lavoro, spettano al Comune di Milano e non a uno spazio pubblico autogestito che ha sede in un edificio occupato.
Uno spazio come il Leoncavallo può offrire alle persone cose che un'amministrazione pubblica forse non sarà mai in grado di fare. Per prima cosa è aperto a tutti, anche a chi non ha niente e che per vari motivi non è ancora in regola. Ma soprattutto è rapido. Qui l'aiuto arriva subito, non bisogna aspettare chissà quale procedura burocratica. E infine, forse la cosa più importante, qui le persone possono sentirsi davvero protagoniste della propria vita. Chiunque può partecipare alle attività, può proporre progetti e aiutare gli altri. Ci si sente parte di una comunità viva, di una crescita collettiva, e non più straniero in una città che non conosci.
Oggi è più facile per le persone straniere o per gli italiani di seconda generazione come te vivere a Milano?
Non molto, forse per niente. La città lascia ancora ai margini le persone di origine straniera e fa lo stesso con noi italiani di seconda generazione, anche se praticamente ormai è iniziata la terza. Per non parlare poi della legge sulla cittadinanza, che è ancora la stessa dal 1992. Io sono nata a Milano proprio in quell'anno, ho frequentato la scuola qui, ma ho dovuto aspettare i 18 anni per avere la cittadinanza perché i miei genitori non sono nati in Italia. Ogni due anni dovevo andare con loro a rinnovare il permesso di soggiorno, con tutti i costi che comporta. Credo che lo sgombero del Leoncavallo possa essere letto anche come un attacco a noi, italiani di seconda generazione.
In che modo?
Basta guardare come veniamo considerati dalla politica di questo Paese. Per la destra, siamo tutti delinquenti. Per la sinistra, sembra che siamo sbarcati con il barcone due giorni fa e quindi siamo ancora da compatire. La realtà non è più questa da diverso tempo. Le persone di seconda generazione fanno ormai parte della società, sono attive nelle comunità sotto tanti aspetti, anche se ancora non con rilevanza nella politica tradizionale. Intanto siamo già arrivati alla terza generazione e probabilmente si rappresenteranno da soli in politica. Non siamo persone da condannare o compatire, ma interlocutori, soggetti con cui confrontarsi.
Sono ancora importanti gli spazi come il Leoncavallo in questa società?
Ti faccio un esempio concreto. Durante il lockdown, nei mesi più duri delle zone rosse, intere fasce di popolazione erano diventate del tutto invisibili, come chi lavorava in nero: avevano perso da un giorno all'altro la loro unica fonte di reddito e non avevano diritto nemmeno alla Naspi. I centri sociali, Leoncavallo compreso, si sono subito mobilitati per fornire un supporto a chi all'improvviso non aveva più nulla.
Ora che il Leoncavallo è stato sgomberato da via Watteau, l'ipotesi sul tavolo è un trasferimento in via San Dionigi, al Corvetto. Si tratta di una zona difficile, spesso al centro delle notizie di cronaca. Ricordiamo per esempio quanto accaduto dopo l'incidente di Ramy Elgaml, con il quartiere che si è acceso di proteste nel giro di poche ore per chiedere giustizia e contestare le forze dell'ordine. Pensi che il Leoncavallo in quel contesto potrà aiutare a favorire un dialogo?
Questo bisognerebbe chiederlo alle persone che vivono il Leoncavallo. Da parte mia, ritengo che più centri sociali ci sono e meglio è. Ma non solo a Milano, in ogni città. Sono luoghi di confronto e di crescita, non sono chiusi in loro stessi come spesso vengono descritti da chi non li conosce. Questa è la mia opinione, ma io sono di parte. Faccio parte del Csoa Lambretta che ora, dopo molti sgomberi, sembra aver trovato un luogo dove poter stabilizzare almeno i lavoratori della nostra associazione, fondata durante la pandemia, che abbiamo chiamato Mutuo Soccorso Milano. Speriamo sia una stabilità duratura.