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“Così sono riuscito a salvare il bimbo di 4 anni ostaggio del padre”, parla il negoziatore

“All’inizio c’è sempre paura. Sai che devi parlare con una persona con cui devi scegliere le parole giuste e i tempi giusti, anche i silenzi”: a dirlo a Fanpage.it è il luogotenente dei carabinieri del comando di Cremona, Mirko Gatti, che ha diretto la negoziazione con l’uomo di 35 anni che si è barricato in casa con il figlio di quattro anni.
A cura di Ilaria Quattrone
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"All'inizio c'è sempre paura. Sai che devi parlare con una persona con cui devi scegliere le parole giuste e i tempi giusti, anche i silenzi. È facile sbagliare. Magari lui intende una cosa e tu ne capisci un'altra e rispondi in modo errato": a dirlo a Fanpage.it è il luogotenente dei carabinieri del comando di Cremona, Mirko Gatti, che tra mercoledì 5 e giovedì 6 ottobre ha diretto la negoziazione con l'uomo di 35 anni che si è barricato in casa a Roncadelle (Brescia) con il figlio di quattro anni.

Una trattativa lunga sedici ore che si è conclusa nel migliore modo possibile e cioè con la liberazione del piccolo. Il bimbo è stato subito affidato alle cure degli assistenti sociali mentre l'uomo è stato arrestato.

Luogotenente Gatti, lei ha trattato per un'intera notte con un papà che ha sequestrato il figlio, un bimbo di appena quattro anni. Può spiegarci come si è articolata tutta la trattativa?

Ieri verso le 17.30 siamo stati chiamati da Cremona perché il negoziatore di Brescia, che comunque c'è anche lì, mercoledì non era presente. Quindi siamo corsi immediatamente a Roncadelle, presso la stazione dei Carabinieri, dove già c'era l'Incident Commander e il comandante provinciale. Poi con il personale del Gis (Gruppo Intervento Speciale) di Livorno, abbiamo concordato una prima strategia da seguire. Abbiamo evitato di mandare più pattuglie sotto casa per non fare aggravare la situazione.

Abbiamo deciso di fare una trattativa al telefono. Mentre ci stavamo preparando per chiamarlo, ha squillato il telefono in caserma: era lui, era il papà che voleva informarci del fatto che fosse in casa con il figlio. Probabilmente aveva notato le prime auto sotto casa. Ci ha detto che comunque non avrebbe fatto del male al bambino.

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Da lì abbiamo cominciato a parlare insomma di quello che era successo e mi ha spiegato i motivi per cui aveva fatto quello che ha fatto. Mi ha detto che si sarebbe comunque preso tutte le responsabilità a cui sarebbe andato incontro. Continuava a ripetere che voleva bene a suo figlio e che voleva rimanere il più tempo possibile con lui. Anche perché domani il bambino compie gli anni.

Abbiamo capito che quello che dovevamo negoziare era il tempo. Durante la trattativa, lui si accorgeva che le ore che passava al telefono con me li sottraeva al bambino. Allo stesso tempo mi accorgevo che voleva parlare e questa cosa da subito ci ha fatto pensare quanto sia importante anche ascoltare.

Quindi quale strategia avete seguito?

Abbiamo deciso di di seguire questa strategia temporale ad oltranza: qualsiasi cosa saremmo andati avanti col tempo, tranne che non ci fossero stati sviluppi particolari di pericolo per il bambino. Però le informazioni che avevamo acquisito in quel momento, ci tranquillizzavano.

Abbiamo continuato fino alle 03.00 di notte. Durante le telefonate cercavamo anche di sentire come potesse stare il bambino. A un certo punto ha voluto fare il bagnetto. Il papà gli ha detto che lo avrebbero preparato insieme.

Lui era sempre determinato al fatto di non uscire col bambino fino a che non aveva raggiunto il suo scopo. Alle tre, però abbiamo sentito che faceva fatica a parlare. Abbiamo concordato di riposarci sia noi che lui e il bambino. Lì però abbiamo avuto un po' di paura perché per tre ore saremmo stati al buio e perché non avremmo sentito il bimbo.

Quando è ripresa la trattativa?

La mattina alle sei ci siamo abbiamo concordato con il commander e il gruppo di negoziatori di Livorno che la negoziazione a quel punto andava portata sul posto. Era arrivato il momento di far vedere anche lui che noi eravamo in assetto sempre e siamo andati sul pianerottolo di casa.

All'esterno avevamo creato un sistema di sicurezza. Ho iniziato quindi a mandargli dei messaggi. All'inizio non rispondeva, nonostante si sentisse il telefono squillare. Dopo qualche minuto, però ha iniziato a rispondere. Gli dicevo che stavamo valutando come farlo uscire, lui ci diceva che aveva paura che avremmo buttato giù la porta, ma gli ho spiegato che se avessimo voluto, lo avremmo fatto mentre dormiva.

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Lui poi mi ha mandato una foto con il bambino che dormiva, però la foto del bambino che dorme lascia sempre qualche dubbio. Probabilmente lui si è accorto di questo dubbio perché io continuavo a chiedere e dopo qualche ora mi ha mandato una foto con il bambino insieme a lui e poi mi ha videochiamato.

Li ho visti tranquilli, rilassati e guardandolo in faccia, ho capito che sarebbe uscito.

Cosa lo ha convinto a uscire? 

Il sistema era stato creato in modo perfetto. È arrivato il procuratore di Brescia, che ha voluto offrire delle garanzie a questo papà, dicendogli che il bambino lo avrebbe comunque poi potuto rivedere e per fare da tramite con lui, abbiamo coinvolto l'avvocato.

Da quel momento voleva altre due ore per stare con il bambino. Gli abbiamo detto che due ore non saremmo riuscite a dargliele. Gli abbiamo detto di preparare il bambino in mezz'oretta, che poi lo avremmo richiamato, che mi avrebbe detto come sarebbe voluto uscire in modo che nessuno potesse spaventarsi e abbiamo concordato che sarebbe uscito con il bambino in braccio.

Dopo mezz'oretta ha aperto la porta e si è fatto trovare col bambino in braccio, dicendo che non avrebbe fatto del male a nessuno e che la pistola l'aveva messa sotto una giacca e su un piccolo mobile che c'era alla sinistra dell'ingresso. Poi si è seduto.

Abbiamo fatto entrare l'assistente sociale che ha preso il bambino e l'ha portato in un'altra stanza e l'ha fatto giocare. Lui lo abbiamo controllato, il bambino lo abbiamo portato fuori e infine è uscito anche lui.

Quali emozioni ha provato sia quando ha saputo che la vita di un bimbo era a rischio e sia dopo la sua liberazione? 

All'inizio c'è sempre paura. Sai che devi parlare con una persona con cui devi scegliere le parole giuste e i tempi giusti, anche i silenzi. È facile sbagliare. Magari lui intende una cosa e tu ne capisci un'altra e rispondi in modo errato. In questo caso specifico, lui parlava l'italiano, ma non in modo perfetto.

Quindi a volte gli chiedevo di ripetere le cose perché avevo paura di sbagliare a parlare. Io mi sentivo un peso enorme. Alla fine di tutto ho provato una di quelle emozioni che mi ha fatto sedere e bagnare la faccia, ho capito che mi stavo commuovendo.

La videochiamata mi ha fatto capire che lì ormai era fatta. Vedere che stavano bene, che erano, tra virgolette, sereni, mi ha fatto commuovere. Anche poi, quando ha aperto la porta. Insomma, non nego che qualche lacrima è scappata anche a me.

Soprattutto perché c'era il bambino ed era una situazione particolare per tutti.

Quanto è importante creare un rapporto di fiducia?

La negoziazione si basa sulla fiducia si negozia in due e la fiducia è già insita in quello che si fa. Non c'è una posizione di potere di uno sull'altro né di giudizio. Insomma, non conta quello che penso io. C'è comunque una persona in difficoltà che va aiutata. Nella negoziazione devi prendere quello che ti può servire da quello che ti dice lui. Devi spingerlo quindi anche a darti queste informazioni.

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Quando ha parlato al telefono con il bambino, vi ha detto qualcosa?

Gli ho chiesto se il papà avesse cucinato, anche se lo sapevo. Gli ho chiesto anche del bagnetto. Insomma lui rispondeva, non era agitato.

Ha già trattato in caso di liberazione di un ostaggio. Magari sempre con un bimbo così piccolo?

No, questo è il primo caso. Spero che non ne accadano altri e che nessuno mai debba intervenire per un bambino.

Durante queste trattative c'è comunque un elevato rischio che la situazione precipiti. Come fate a mantenere la calma e a scongiurare eventuali rischi?

Un po' bisogna averlo già nell'indole. Difatti saper mantenere la calma è uno dei criteri di selezione dell'arma dei Carabinieri. Poi ci sono anche alcuni corsi che ci fanno fare, che sono molto duri e selettivi. Quando si fa il corso ti svegliano di notte, all'improvviso ti danno delle informazioni che devi ricordare a memoria.

Devi correre in un posto e ricordarti ancora quelle cose poi ti fanno parlare con una persona. Quindi un po' il vantaggio è che uno ce l'ha nell'indole e un po' che sei addestrato a farlo perché ci sono delle persone competenti che te lo insegnano.

Ogni anno inoltre vieni rivalutato psicologicamente proprio per verificare se sei ancora in grado di poter fare il negoziatore.

Voi correte tanti rischi. Come fate a salvaguardare la vostra incolumità? 

Il corso che facciamo prevede anche una parte sulla sicurezza. Studiamo anche diverse modalità in cui agire magari rispetto alla presenza di una porta o a come entrare in un appartamento.

La negoziazione deve garantire la sicurezza per gli operatori e anche per chi è in casa che va protetto per quanto possibile. E poi c'è anche la carta della fortuna, che però deve essere minima.

Insomma, in quei momenti c'è anche chi ti tutela. Io ero sicurissimo che non avrei corso rischi. Anche perché tutti abbiamo i giubbotti antiproiettile e i caschi antiproiettili. Poi è vero anche che ci sono casi in cui non è opportuno metterselo perché in caso di bambini, c'è il rischio che questo si spaventi. In ogni caso, viene scelta la strategia giusta per stare dietro al muro o davanti alla porta di casa.

Qual è il segreto, quindi, per essere un buon negoziatore?

Ascoltare. Perché l'intelligenza auditiva penso che stia scemando in tutte le cose. Ascoltare le persone è importante. Spesso si parla con la gente, ma poi non ci si ricorda neanche quello che ci è stato detto e magari è importante, ma non solo nelle negoziazioni. Ormai in qualsiasi cosa tante persone sono in mezzo alla gente, ma nessuno le sente.

Durante le vostre chiacchierate al telefono, l'uomo ribadiva il fatto che avesse una pistola in casa?

Della pistola non ce l'ha detto subito. Noi lo sapevamo perché lui si è presentato dall'assistente sociale con la pistola e l'ha mostrata. Durante la negoziazione gli abbiamo chiesto se ce l'avesse ancora con sé e lui a volte diceva di no.

Abbiamo sempre dato per certo che l'avesse con sé e quindi abbiamo lavorato consapevoli che l'aveva in casa. Anche perché alcuni colleghi sono andati a vedere quale era il tragitto che poteva aver fatto e lungo la strada non l'hanno trovata. Quindi abbiamo pensato che la pistola era ancora con lui. E difatti così era.

Le chiedo un'ultima cosa: perché la madre del piccolo, invece, non è stata fatta venire sul luogo anche dopo la liberazione del bambino?

È chiaro che questa situazione era dovuta al rapporto che esiste tra i due genitori. Quindi noi non sapevamo come avrebbe potuto reagire il padre del bambino rispetto alla vista della donna. Io ho chiesto che non venisse, non è venuta e questa cosa ci ha agevolato.

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