“I turisti cecchini dei safari umani di Sarajevo passavano da Milano”: il racconto di una giornalista bosniaca

"All'inizio il fenomeno dei ‘safari umani' non era organizzato. Già nel 1992 le persone del posto pagavano per poter uccidere bambini e adulti. Poi sono iniziati ad arrivare dall'Inghilterra, dalla Germania e anche dall'Italia". A raccontare a Fanpage.it quanto accaduto a Sarajevo durante l'assedio dell'esercito serbo terminato nel 1996 è Mensura Burridge. Giornalista e attivista bosniaca, ha recentemente pubblicato il libro ‘We, the children of Sarajevo‘ (‘Noi, i bambini di Sarajevo'), che racconta storie di bambini costretti a rimanere nella capitale durante gli anni della guerra. "Per 30 anni non c'è mai stata la volontà di indagare su chi arrivava a Sarajevo per uccidere per divertimento", ha dichiarato Burridge. Nelle scorse settimane, la Procura di Milano ha aperto un fascicolo di indagine, dopo l'esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, per poter dare un nome a quegli italiani che avrebbero partecipato alla "caccia agli umani".
Come funzionavano i "safari umani" di Sarajevo?
Ho lasciato Sarajevo nell'aprile del 1992, appena prima dell'inizio dell'assedio serbo, quindi non sono stata testimone diretta di quanto accaduto. Posso dire, però, con certezza che il fenomeno dei "safari" e dei "turisti di guerra" all'inizio non era organizzato. Già le persone del posto pagavano per uccidere bambini e adulti, poi sono iniziati ad arrivare dai gruppi nazionalisti della Grecia, della Bulgaria, dall'Ucraina e terroristi dalla Russia e Bielorussia. Solo in un secondo momento i cecchini sono iniziati ad arrivare dai paesi occidentali, quindi inglesi, tedeschi e anche italiani. Pagavano fino a 100 marchi tedeschi per uccidere.
Qual è stato il ruolo dell'Italia in questa vicenda?
Chi arrivava dai Paesi occidentali passava attraverso l'Italia, soprattutto per Milano e Trieste. Da lì prendevano l'aereo per Belgrado e arrivavano nel territorio occupato dalla Serbia con i fuoristrada o gli elicotteri. Non ci sono mai stati elicotteri a uso civile per i trasporti fino a Sarajevo, quindi dovevano essere per forza velivoli militari. Era tutto molto costoso.
Ci sarebbero già alcuni nomi di italiani che avrebbero partecipato a questi "safari umani", ma si cercano ancora prove come il registro dei voli. Ma appunto, se tutto era organizzato dai militari serbi, chi può dire se abbiano effettivamente registrato qualcosa? Magari lo hanno fatto, ma ne dubito.
Cercando in Bosnia oggi, si potrebbero trovare testimonianze di quanto accaduto in quegli anni di assedio?
Quando queste persone ricche straniere arrivavano a Sarajevo, non c'era alcuna struttura di lusso che li poteva accogliere. Pertanto, devono esserci state persone del posto che li hanno ospitati meglio che potevano e, minimo, per due notti. È molto difficile, ma si potrebbero trovare testimonianze di questo tipo anche dal lato bosniaco. Per quanto riguarda i soldati serbi, molti di loro oggi vivono in estrema povertà, spesso in piccole città in Serbia. Forse anche loro potrebbero avere qualche documento.
Di "turismo di guerra" se ne era parlato già durante alcuni processi alla Corte Internazionale di Giustizia, il Tribunale Internazionale dell'Aia. Tuttavia, le indagini non sono mai proseguite abbastanza da trovare dei responsabili. Cosa è mancato secondo lei per arrivare a una soluzione?
Se un giorno verrai in Bosnia, vedrai che quei criminali di guerra camminano vicino alle vittime. Qualcosa di ridicolo. Spero che questa inchiesta italiana abbia successo, che arrivi a queste persone che venivano in Bosnia per sparare e che riesca a grattare la superficie di un passato terribile.
Per quanto riguarda gli altri Paesi, chi mai sarebbe orgoglioso di iniziare un'indagine su questi fatti come giornalista per portare giustizia? Sono passati 30 anni, ormai è molto difficile. Le autorità bosniache non faranno nulla.
Ora può essere diverso?
Solo in Italia, forse.
Se si parla di cecchini e dell'assedio di Sarajevo, la mente torna alle foto che ritraevano i civili in fuga da quello che veniva chiamato "sniper alley". Ci può spiegare cos'era?

Negli anni dell'assedio erano stati allestiti due cerchi di occupazione, uno ampio e uno più vicino al centro di Saraejvo. Geograficamente, Sarajevo è una valle che segue il fiume ed è circondata da colline e montagne. Prima dello scoppio della guerra, durante i preparativi del 1991, su un livello molto basso della zona centrale di quei bordi delle colline l'esercito serbo aveva allestito una base per i carri armati e l'artiglieria pesante. Si vedeva dalla città a occhio nudo, non serviva un binocolo. Così facendo, potevano avere un blocco di appartamenti nel quale nascondersi e da lì sparare ogni giorno.
Guardando la mappa di Sarajevo di oggi, la "sniper alley" andava da Marijin Dvor fino all'ambasciata americana. Da quegli appartamenti avevano la visuale chiara su molte delle strade che si diramano tra i palazzi. Le persone usavano vestiti e coperte per provare in qualche modo a ridurre la loro visibilità. Almeno 15 persone al giorno venivano ferite dai cecchini.
Lungo la "sniper alley" hanno sparato anche a mio marito. Era l'addetto stampa delle Nazioni Unite e stava guidando, quando il proiettile di un cecchino è finito tra le sue gambe. Nel mio libro racconto anche la storia di Tiana, che oggi è direttrice d'orchestra ma ai tempi era solo una bambina. A suo padre avevano sparato due volte: la prima lo colpirono a un orecchio mentre andava al lavoro, la seconda a un dito. Mi domando se i cecchini avessero voluto ucciderlo o stavano solo giocando con la sua vita.