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Femminicidi Genini e Ronchi a Milano, presidente del Tribunale: “Non capisco la paura dell’educazione affettiva a scuola”

Negli ultimi anni, in Italia, sono state inasprite le misure repressive per contrastare i femminicidi. Nonostante questo, però, questi delitti non diminuiscono. Solo negli ultimi giorni, a Milano, si sono verificati i femminicidi di Pamela Genini e Luciana Ronchi: “È necessario che nella nostra società ci sia un reale cambio culturale”, ha spiegato a Fanpage.it, il presidente del tribunale di Milano, Fabio Roia.
A cura di Ilaria Quattrone
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A sinistra Pamela Genini, a destra Luciana Ronchi
A sinistra Pamela Genini, a destra Luciana Ronchi

Pamela Genini e Luciana Ronchi. Sono le ultime due donne vittime di femminicidio in Italia. Entrambe sono state uccise a Milano dagli ex compagni. A entrambe è stato teso un agguato: nel primo caso nella propria abitazione e nel secondo in strada. Entrambe sono vittime di femminicidio in un Paese in cui negli anni è stato introdotto prima il Codice Rosso e poi, nei mesi scorsi, il reato di femminicidio, che punisce con l'ergastolo chiunque uccida una donna "commettendo il fatto con atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna". Eppure nonostante l'inasprimento di misure repressive, i femminicidi non diminuiscono: "Nella nostra società è presente una fortissima concezione patriarcale e un predominio dell'uomo nei confronti della donna", ha spiegato a Fanpage.it il presidente del tribunale di Milano, Fabio Roia, che ha poi precisato che per aver un cambiamento è necessario intervenire su diversi piani. Non solo educando all'affettività sia scuola che nelle famiglie, ma anche cambiando il modo di comunicare, di fare i processi e ancora consentendo l'accesso ai ruoli apicali nel mondo del lavoro.

Presidente, a Milano si sono verificati due femminicidi a distanza di pochi giorni. In questi anni, abbiamo assistito al rafforzamento di misure repressive per contrastare i femminicidi. Secondo lei, è sufficiente? 

Faccio una premessa. Esiste un problema strutturale, sociale e culturale che attraversa la nostra società dove è presente una fortissima concezione patriarcale e un predominio dell'uomo nei confronti della donna. Il problema complessivamente lo si risolverà. Temo però, per quanto spero avvenga il prima possibile, che ci vorranno molti anni. È necessario che nella nostra società ci sia un reale cambio culturale. Un cambio in cui finalmente l'uomo possa capire che la donna ha diritto di essere libera e che questa libertà comprende anche di poter decidere di rompere unilateralmente una relazione.

Per avere questo cambiamento sono necessari diversi interventi. Innanzitutto sul piano della prevenzione primaria, quindi dell'educazione al rispetto di un'affettività paritaria, che deve avvenire nelle scuole.

Ancora sul piano dell'educazione delle famiglie dove bisogna insegnare ai figli maschi il rispetto nei confronti delle donne. Ma ancora sul modo di comunicare, di fare i processi e di gestire l'economia. In quest'ultimo caso, per esempio, è necessario che le donne possano arrivare in tutti i posti di comando liberamente, per merito e senza che il genere maschile ponga ostacoli.

Tutto questo comporta una rivoluzione che prescinde dall'esistenza delle leggi. Poi, sì, in Italia c'è una buona rete normativa e sicuramente le leggi devono essere applicate da operatori esperti, qualificati, attenti e specializzati. Quando ci sono situazioni che vengono denunciate, è fondamentale che l'intervento sia pronto.

Nel caso degli ultimi due femminicidi, come spesso accade, purtroppo, le donne non avevano denunciato. Con questo non voglio dare nessun tipo di responsabilità all'omessa denuncia perché denunciare è un atto di sofferenza e non è semplice. Inoltre noi dobbiamo permettere che a una denuncia corrisponda un intervento sempre attento, puntuale, rapido, tutelante. Se sul territorio c'è la percezione che denunciare non comporti una situazione di sicurezza, prevarrà sempre la paura.

Lei ha parlato di prevenzione all'interno delle scuole. Eppure, solo alcuni giorni fa, è stata data notizia di un emendamento della Lega che punta a vietare l'educazione sessuale e all'affettività fino alle scuole superiori. E, in questo ultimo caso, se ne potrà parlare con il consenso dei genitori. Cosa ne pensa?

Onestamente non comprendo la paura di andare nelle scuole con personale esperto a insegnare il rispetto verso tutte le differenze, ma soprattutto verso la differenza di genere. È un timore che non riesco a cogliere. Bisogna rendersi conto che è un problema che riguarda non solo le famiglie, ma riguarda anche la scuola, l'informazione.

Per esempio nelle università, dove è vero che ci sono solo maggiorenni, ci sono già corsi dove si parla di rispetto delle donne, di violenza degli uomini contro le donne, di diritti al rispetto di genere nelle professioni, di empowerment, di equality gender. Non so perché dobbiamo avere paura di andare avanti. Forse perché permane questa matrice patriarcale nel nostro Dna, per cui si ha paura di fare quest'ulteriore passo.

Passiamo alle misure non detentive. In diverse parti d'Italia, oltre che a Milano, si lamenta che i braccialetti elettronici sono pochi e spesso non funzionano…

Quando vengono applicate misure non detentive come, per esempio, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, bisogna applicare un dispositivo elettronico. Il dispositivo ci deve essere e deve funzionare. In altre sedi d'Italia, per esempio, si sono verificati femminicidi perché questi dispositivi non avevano funzionato. Quindi, pur essendo il soggetto sottoposto a una misura con il divieto di avvicinamento, questo è riuscito ad avvicinarsi alla persona offesa e arrivare all'atto estremo.

Situazioni così non devono accadere: nel 2025 dalla tecnologia dobbiamo avere risposte sempre pronte e efficaci. Queste disfunzionalità devono essere eliminate. Devono essere sufficienti i dispositivi elettronici per poter soddisfare le esigenze della autorità giudiziaria.

Facendo riferimento al femminicidio di Pamela Genini. Gli inquirenti si stanno concentrando su un altro elemento: nel 2024, la ragazza si era presentata in ospedale dove aveva raccontato di essere stata aggredita dal compagno, aveva compilato un questionario sulla violenza di genere dove aveva risposto affermativamente a quattro domande su cinque, erano stati informati i carabinieri, ma nonostante tutto questo non è scattato il codice rosso.  

Nel caso di Pamela Genini, mi hanno colpito due cose: la prima è che molte persone avevano assistito a situazioni di violenza e nessuno le ha segnalate. Per i privati non c'è un obbligo di denuncia. Non sono pubblici ufficiali, però forse c'è un dovere civico di segnalare soprattutto quando si notano situazioni particolari.

C'è una legge del 2013 che spiega che quando la segnalazione è fatta al Questore per finalità di emissione, per esempio, del provvedimento di ammonimento, è possibile mantenere l'anonimato del segnalante. Non c'è nemmeno un'esposizione sul piano della comunicazioni di dati personali, che poi vengono riportati negli atti. Se vogliamo invertire la rotta, ci vuole un un senso civile comune. Se assistiamo a situazioni di violenza, dobbiamo pensare che non è un fatto privato all'interno di una relazione, ma è un fatto che interessa tutta la società.

Il secondo tema, che è più tecnico, per cui secondo me doverosamente la procura di Bergamo ha aperto un'inchiesta, è relativo alla valutazione di rischio che è stata fatta in ospedale.

Stando al decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 2017, che istituisce linee guida per l'accoglienza di donne vittime di violenza nei presidi ospedalieri, quando un operatore sanitario viene a conoscenza di una situazione di violenza domestica sulla quale poi viene fatta una valutazione del rischio, che nel caso di Genini era per altro molto elevata, devono scattare delle misure di protezione.

Bisognerebbe vedere se negli atti, Genini avesse raccontato di violenze abituali. Nel caso in cui vi è una reiterazione delle violenze, scatta il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi che è procedibile d'ufficio. Se così fosse, allora c'era un obbligo di segnalazione. Però al di là di questo, se un qualsiasi operatore della rete verifica una situazione di elevato rischio, secondo me, dovrebbe comunque attivare degli strumenti di protezione a tutela e questo a prescindere dalla responsabilità poi di tipo penale o no.

Per cui è vero che va sempre rispettata la decisione della persona offesa, ma se questa persona offesa non vuole denunciare ma noi capiamo che in una situazione di rischio bisognerebbe aiutarla a far capire che forse conviene denunciare. Magari, per esempio, convincendola ad andare ad un centro antiviolenza.

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