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Elena Casanova uccisa a martellate dall'ex

Elena uccisa dall’ex, l’esperta: “Femminicidio è solo punta dell’iceberg, non è quasi mai un raptus”

Quello di Elena Casanova, la donna di 49 anni uccisa a martellate dall’ex compagno a Castegnato (Brescia), è l’ennesimo caso di femminicidio. Secondo l’ultimo rapporto Eures in Lombardia ad agosto 2021 se ne sono registrati già 11. Anche in questo caso, il responsabile si è giustificato dicendo che il suo atto è stato conseguenza di un raptus: “È importante che l’opinione pubblica si renda conto che questi eventi non sono quasi mai l’esito di un raptus, ma l’esito di una storia di violenza che ha come epilogo purtroppo un evento così drammatico”, spiega a Fanpage.it, Cristina Carelli consigliera della rete dei centri antiviolenza Di.Re della Lombardia.
A cura di Ilaria Quattrone
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Elena Casanova, la vittima
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Elena Casanova è l'ennesima vittima di femminicidio: un delitto che si è consumato in strada a Castegnato, comune in provincia di Brescia. A ucciderla è stato l'ex compagno, Ezio Galesi, con il quale la relazione era terminata un anno fa. Per 365 giorni, la 49enne ha subito minacce, persecuzioni e atti intimidatori. Violenze che sono culminate in un gesto atroce ed efferato: Elena è stata ammazzata con svariate martellate. Dopo averlo compiuto, l'uomo avrebbe affermato di "aver fatto il suo dovere". Si è poi seduto accanto al corpo, si è acceso una sigaretta e ha aspettato l'arrivo dei carabinieri ai quali ha poi confermato la sua volontà di uccidere. Quello di Elena è solo uno degli ultimi femminicidi. Secondo l'ultimo rapporto di Eures in Lombardia nel 2020 se ne sono registrati 21 mentre a fine agosto 2021 erano undici: "Adesso saranno una quindicina. Questo è un dato che purtroppo, negli anni, non diminuisce", spiega a Fanpage.it Cristina Carelli, consigliera della rete dei centri antiviolenza Di.Re della Lombardia.

Quello di mercoledì sera a Castegnato è stato un crimine molto efferato. Galesi ha affermato che sia stato frutto di un raptus.

È importante che l'opinione pubblica si renda conto che questi eventi non sono quasi mai l'esito di un raptus, ma l'esito di una storia di violenza che ha come epilogo purtroppo un evento così drammatico. Lui non ha rispettato la sua decisione di lasciarlo e questa è stata la conclusione. Questi uomini non ammettono di aver commesso un reato. Attribuiscono ancora una volta la responsabilità dei fatti alle donne maltrattate come se si andasse a cercare nel comportamento della donna la giustificazione del loro atto. È molto rischioso lasciare un uomo maltrattante e questo non significa che le donne non debbano farlo, anzi. Noi lavoriamo proprio perché lo facciano, ma quando lo fanno – e devono farlo – devono essere consapevoli dei rischi che corrono e dei percorsi che esistono per supportarle nei modi più adeguati e in questo purtroppo non sempre il sistema risponde in modo adeguato. Gli uomini in qualche modo devono dimostrare di essere potenti, di esprimere una certa aggressività come se fosse legittimo che lo siano.

A tal proposito, qual è l'azione dei centri antiviolenza?

I centri antiviolenza rispondono alla possibilità di intraprendere dei percorsi con delle persone che conoscono le dinamiche della violenza e sanno anche individuare il livello di rischio che la donna corre e proporre quindi delle misure di sostegno adeguato: non basta dire alle donne denunciate. Sì, devono denunciare, ma devono sapere che esistono dei luoghi in cui possono essere supportate in modo adeguato. Il sistema deve essere pronto a supportare la donna e farla sentire al sicuro. Dobbiamo fare in modo che le donne sappiano sempre di più quali siano i rischi e che possano rivolgersi a chi è competente. È un lavoro multidisciplinare che al centro vede il ruolo dei centri anti violenza.

Cosa avete imparato dai racconti delle donne?

Dai racconti delle donne abbiamo imparato a conoscere la dinamica con cui si muovono questi uomini: che non mollano, che pensano che quella donna è loro proprietà che non ha diritto di decidere e di prendere una distanza dall'uomo. Questi uomini hanno costruito la loro identità sulla base di un senso di proprietà che fa parte della struttura patriarcale e sessista in cui viviamo e che è l'humus dentro cui si radicano questi accadimenti. Questo non scaturisce sempre nel femminicidio, ma anche in altre violenze. Il femminicidio è solo la punta dell'iceberg: sotto poi ci sono grandi numeri di donne che vivono tutti i giorni minacce, violenze e persecuzioni.

Cosa si può fare per prevenire violenze e gesti estremi? 

Nelle scuole si può fare tanto. Bisogna lavorare sui modelli di riferimento, sui modelli delle relazioni e anche sulle polarizzazioni di genere e cioè su quella idea che il maschio debba essere in un certo modo e la femmina in un altro. Noi lavoriamo su una destrutturazione di questi modelli e sulla possibilità di vivere la relazione in un modo sano. Come rete Di.Re lo facciamo sia con i bambini piccoli che con gli adolescenti. In quest'ultimo caso capita spesso che le ragazze e i ragazzi ti raccontino di ruoli stereopatizzati o di pregiudizi legati a certi concetti. Per esempio la gelosia che non è interpretata come qualcosa che può portare alla limitazione della libertà di una persona, ma viene vista come espressione di amore e anche le ragazze hanno questa concezione. La speranza è quella di poter disinnescare questi meccanismi. Dobbiamo pensare anche ai ragazzi come futuri cittadini che diano vita a una società che non legittimi più la violenza.

Nel caso di Castegnato, c'è una ragazza di 17 anni che adesso dovrà affrontare la morte della madre. Come si può aiutare queste ulteriori vittime? 

Bisogna sostenerla sia psicologicamente, ma anche economicamente. I centri Di.Re saranno presto impegnati in un progetto che vede quattro cordate su varie zone del territorio nazionale che daranno sostegno agli orfani di femminicidio e ai loro caregiver. Metteremo al centro i diritti di questi ragazzi e ragazze. Facciamo in modo che i risarcimenti, siano reali che possano veramente consentire a questi ragazzi di elaborare il vissuto e puntare su un futuro che restituisca in qualche modo la possibilità di realizzarsi e portare avanti un progetto di vita sereno.

Spesso infatti loro sono doppiamente traumatizzati.

Sì, spesso vengono messe in discussione entrambe le figure di riferimento: la donna perché è vittima e l'uomo perché è l'omicida e a volte anche omicida-suicida. Questo genera una spaccatura interna che è davvero una cosa che non puoi mettere insieme, un paradosso così grande che ti mette davanti a un dato fortissimo non integrabile con la possibilità di leggere la realtà come qualcosa di positivo e che ti dia una prospettiva per il futuro. Spesso sono ragazzi e ragazze che hanno vissuto tutta la situazione di violenza e a volte hanno assistito all'evento finale.

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