“Dove Milano muore”: siamo entrati nei boschi della droga di Rogoredo e San Donato dove l’eroina costa 2 euro

All'incirca un mese fa Fanpage.it è entrata per la prima volta nel cosiddetto "bosco della droga" di Rogoredo, una delle piazze di spaccio più longeve di Milano. Un’area che, come le autorità avevano assicurato, sarebbe stata "bonificata" e restituita alla città. La realtà che abbiamo trovato, però, è stata ben diversa: il bosco non solo è ancora attivo, ma è più "vivo" e più grande che mai, fatto di sostanze "tagliate male" e dipendenze invisibili. Un luogo che, per chi lo frequenta, restituisce l'immagine della "bassezza umana della disperazione".
Da quel primo ingresso, abbiamo deciso di tornarci più volte con le nostre telecamere nascoste per capire chi vi abita e documentare cosa accade davvero al suo interno. È così che è iniziato il nostro viaggio nelle piazze di spaccio dei due principali boschi della droga di Milano: Rogoredo e San Donato. "Non-luoghi" ai margini di una città che corre, vuole apparire, ma preferisce non guardare le migliaia di persone che ogni giorno vivono e transitano in quello che per loro è un vero e proprio "cimitero".
La prima tappa, "il binario" di Rogoredo
Il nostro viaggio inizia dalla stazione di Rogoredo, alla periferia sud-est di Milano. Dopo aver attraversato il sottopassaggio ferroviario, ci ritroviamo in via Cassinis, una delle vie che portano al "bosco della droga". Qui incontriamo Don Diego, che da molti anni si occupa delle persone che frequentano l'area, cercando di accompagnarle verso un percorso di disintossicazione.
Saliamo in macchina e insieme percorriamo via Sant’Arialdo, diretti verso il presidio che alcuni volontari, tutti i mercoledì, allestiscono alle porte del bosco per distribuire pasti caldi, vestiti e coperte a chi passa di lì o a chi, dal bosco, non è più in grado di uscire. Più avanziamo, più il silenzio aumenta e, con lui, l'oscurità: i lampioni sono spenti, come se la città avesse paura di guardare. Per entrare servono pettorine arancioni e scarpe dalle suole alte e resistenti: le prime sono usate dai volontari per essere immediatamente riconoscibili e non percepiti come una "minaccia", le seconde per evitare il contatto con le migliaia di siringhe abbandonate a terra. Sotto i giubbotti, le telecamere nascoste. Così, attraverso uno dei varchi che sono stati scavati nella staccionata lungo la strada, entriamo nella prima piazza di spaccio che esiste all'interno del bosco, chiamata "il binario" da chi la frequenta regolarmente.

La cosa che salta subito all’occhio è il viavai di persone che entrano ed escono dal varco: alcune camminano frettolosamente, altre sono sedute sui muretti o lungo i sentieri che corrono accanto ai binari. I primi con cui ci fermiamo a parlare sono un ex atleta che ha partecipato alle Olimpiadi di Atene del 2004 e una ragazza molto giovane che mostra i sintomi dell'astinenza. Chiediamo loro se hanno bisogno di qualcosa. "Un antinfiammatorio", risponde la ragazza, spiegandoci di avere la sensazione di "un conato, come se fossi scoppiata per la nera" (l'eroina, ndr). Poi aggiunge: "Se mi faccio una dose di bianca (cocaina, ndr), mi passa". Chiediamo se non hanno paura di stare lì. L'ex olimpionico ride: "Di cosa dovrei aver paura? Di un cimitero?".

Ci addentriamo nel bosco: un sentiero di fuochi di cui non si vede la fine. Arriviamo al luogo dove avviene "la pesa", sotto uno dei tralicci che si trovano a bordo dei binari. Lì incontriamo tre spacciatori che sono intenti a suddividere in dosi e "punte" (una piccola dose, ndr) le sostanze stupefacenti. Al momento, il prezzo di mercato è quello di 2 euro per l'eroina e 4 per la cocaina, ma i prezzi possono cambiare quando "i pusher si scornano tra loro".
Dopo pochi minuti, però, arriva l'avvertimento: "Dovete andare via". Subito dopo compaiono le luci lampeggianti di grosse torce. Sono i "fari" che si avvicinano, puntandocele addosso per esortarci ad andarcene. Questo è l'avvertimento "gentile", perché in altri casi lanciano direttamente le pietre.

Mentre stiamo uscendo veniamo fermate da un ragazzo che ci chiede insistentemente di fare luce tra i cespugli. Mentre lo aiutiamo, le persone che passano sussurrano "paranoia". Questo perché nel cespuglio non c'è niente. Le ricerche non sono nient'altro che gli effetti collaterali di una "nuova versione di cocaina, tagliata male, che crea paranoia", ci ha poi spiegato Simone Feder, educatore e psicologo che, tutte le settimane, presidia il bosco con i volontari. "Li vedi piegati, le braccia protese verso terra alla costante ricerca di qualcosa che non esiste. È la droga che glielo fa credere".
I fari tornano. Questa volta la luce è fissa, così come le voci che ci intimano di uscire velocemente. Prima di andar via, però, incontriamo un'ultima persona che vive nel bosco da oltre dieci anni. Ci viene presentata come il braccio destro degli spacciatori. È lei a spiegarci come funziona la vita all'interno del bosco: si vive in rifugi di fortuna fatti da ombrelli, tende o alberi. Ognuno fa quello che può per procurarsi i soldi per acquistare la droga. "Per le donne è più difficile, vengono fuori solo per battere [prostituirsi, ndr] per 5 o 10 euro", ci spiega questa persona. "Preferisco fare la schiava. Guardate le mie mani: pulisco per terra, faccio da mangiare". Poi, prima di salutarci, ci indica la seconda piazza di spaccio del bosco. Prendiamo la macchina e andiamo lì.
Via Orwell, la più antica piazza di spaccio di Rogoredo
Da via Sant'Arialdo bastano pochi minuti di macchina o un breve percorso a piedi dentro al boschetto per arrivare in via George Orwell, dove si trova la piazza di spaccio più antica di Rogoredo e una delle più importanti d'Europa. Facciamo il tragitto insieme a Francesca Micheli, assessora ai Servizi di Welfare di San Donato, che conosce la zona e collabora con i volontari per dare assistenza. Ci fa strada con la sua auto, noi la seguiamo con la nostra. Intanto, siamo in comunicazione costante al telefono per farci spiegare ciò che stiamo vedendo lungo il tragitto.

Poco prima della curva che passa sotto al raccordo dell'Autostrada del Sole, accanto alla centrale elettrica dei treni, accostiamo davanti a un cancello. Dopo pochi secondi arrivano due addetti alla sicurezza: ci chiedono di identificarci, poi ci lasciano passare. Uno di loro rimane a sorvegliare le auto perché "capita che lancino pietre". L'altro ci scorta fino all'ingresso della piazza di spaccio che raggiungiamo dopo aver scavalcato due muretti e un piccolo fossato pieno di siringhe e bottiglie accartocciate, "utilizzate per fumare crack".
All’interno, un gruppo di spacciatori è seduto intorno a un fuoco che "non si spegne mai". Sul lato, una carovana silenziosa di persone entra ed esce dal "bosco". Una volta che hanno comprato, "si buttano a terra e si bucano", ci spiega l'addetto alla sicurezza prima di avvertirci: "Ci sono le sentinelle. Non le vedete, ma ci stanno osservando proprio ora". Si appostano sul perimetro del raccordo autostradale. L'obiettivo? "Avvisano gli spacciatori che c'è qualcosa che non va, come voi che guardate". Qui, "è terra di nessuno". Poi, ci indica la centrale elettrica. "Molti di loro vanno lì dentro a dormire" e, come ci spiega, "alcuni muoiono bruciati".
Prima di proseguire il nostro viaggio incontriamo un ragazzo di 31 anni. È arrivato a Milano per fare "l'artista tossico maledetto". Fa parte dei "pendolari" del bosco: va lì per comprare la droga perché "costa poco ed è disponibile h24", ma non ci vive. "Spero di non metterci mai radici", si affretta ad aggiungere, "il cancro di Milano è qui". Poi ci spiega come ci si muove tra le varie piazze di spaccio all'interno del bosco. "È un'area isolata, è facile arrivarci e poi spostarsi al suo interno, ma è difficile uscirci", continua. "C'è il tour di quelli che comprano droga. Da qui arrivi direttamente a San Donato". È lì che ci dirigiamo.

San Donato, il nuovo bosco della droga
L'ultima tappa del nostro percorso è proprio San Donato. Nonostante le tante promesse di riqualificazione e la politica di chi sostiene che il "boschetto della droga" non esista più, sia la stazione che la metropolitana sono diventate le sue principali estensioni. Seppur una parte di Rogoredo sia stata realmente "bonificata", le persone che acquistavano e consumavano le sostanze stupefacenti all'interno del bosco, non sono scomparse, ma si sono spostate qui.

Per prima cosa ci dirigiamo alla stazione dei treni. Lì seguiamo una delle persone che sta andando a consumare droga. Attraversiamo il sottopassaggio e arriviamo alla banchina che costeggia il bosco. Guardando oltre la staccionata che separa i binari dalla vegetazione, la prima cosa che vediamo è uno dei tanti accampamenti di coloro che vivono all'interno e che, ogni giorno, fanno avanti e indietro tra Rogoredo e San Donato.
Vediamo la persona che stiamo seguendo entrare nella vegetazione attraverso un varco nella recinzione in ferro. Quasi come se si fossero dati il cambio, pochi istanti dopo un'altra persona esce dal bosco diretta proprio verso di noi. "Che c'è?", ci chiede appena arriva, dopo essersi presentato con un nomignolo di fantasia. "Ci mancherebbe che ci chiamiamo con il nostro vero nome", è la sua risposta. Gli spieghiamo che stiamo cercando di capire come funzioni la vita lì: "Dormiamo lì nelle tende", spiega, indicandoci l'accampamento poco lontano dai binari. A San Donato non esistono presidi di volontari, quindi, ogni volta che possono, le persone che vivono lì percorrono i sentieri nel bosco e arrivano in via Sant'Arialdo, per ricevere beni di prima necessità: "Sono solo 15 minuti a piedi". Poi, prima di andarsene, riassume così la situazione: "Sono qui per azzerarmi".
Da qui ci dirigiamo alla fermata della metropolitana, il capolinea sud della Linea Gialla (M3), dove molte persone si fermano a consumare droga o a dormire, spesso nell'attesa di tornare a Rogoredo per acquistarne altra. Qui, in uno dei sottopassaggi, incontriamo Paul (nome di fantasia). "Sto di mer**", inizia, indicandoci un catetere di fortuna che porta addosso. È fatto con una bottiglietta e una cannuccia di plastica. "Sono infetto, non mi reggo in piedi", aggiunge, prima di chiederci di riferire a una volontaria di avvisare suo papà: "Se mi vuole venire a trovare, ditegli che sto cercando di farcela". Riportiamo il suo messaggio e qualche giorno dopo il nostro incontro ci informano che Paul è stato ricoverato. In ospedale, ci dicono, ha trovato medici che lo stanno curando "con amore e professionalità".
Un viavai di anime
Torniamo al "binario", in via Sant’Arialdo, dove è iniziato il nostro viaggio. È l’ultima volta che saliamo in macchina, ma non è la fine del percorso. Quello che abbiamo attraversato in queste ore è, infatti, lo stesso tragitto che ogni giorno viene compiuto da centinaia di persone: un viavai continuo e silenzioso di anime che si spostano da Rogoredo a San Donato, tra le piazze di spaccio dei boschi.
È un percorso che si ripete sempre uguale. Si entra nel bosco per comprare, si resta per consumare, si esce per cercare riparo, cure, un pasto caldo. Poi si ritorna. Finché, alla fine, non si è più in grado di uscire. Le persone cambiano, i volti si consumano, ma il flusso non si interrompe mai.
Davanti al tendone dei volontari, Francesca Micheli ci aiuta a dare un senso a ciò che abbiamo visto. Spiega che, finché si continuerà a parlarne in modo astratto, non si potrà comprendere davvero quello che avviene all'interno di questi luoghi. È solo quando ci si entra, "quando si incontrano le persone, si ascoltano i nomi, si stringono le mani", che cade ogni distanza. In quel momento non esistono più confini tra "noi" e "loro": restano solo persone.
"L'odore che si portano addosso non va dimenticato", conclude Francesca Micheli, "perché dietro ci sono storie, c'è disagio, c'è paura, c'è solitudine". Per questo "dargli un significato" vuol dire riconoscere l’umanità che c'è in quel movimento costante di anime: persone che sfuggono allo sguardo pubblico e rimangono invisibili in una città che corre senza fermarsi a guardare chi resta indietro.