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Opinioni

Marino, Renzi e il disprezzo per le istituzioni

I fatti di questi giorni evidenziano un vizio politico piuttosto evidente: lo spostamento della dialettica politica e delle scelte pubbliche dalle aule istituzionali ad altre sedi.
A cura di Roberta Covelli
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Dopo settimane di riunioni e indagini, titoli di giornali e sit-in a favore o contro Marino, la vicenda di Roma ha avuto il suo epilogo nelle dimissioni di ventisei consiglieri comunali, che fanno così decadere sindaco e giunta, imponendo di sciogliere il Consiglio senza che questo si sia espresso sul punto in aula.
In questo scenario, però, il giudizio su Ignazio Marino dovrebbe essere lasciato sullo sfondo, perché rischia di offuscare un vizio politico piuttosto evidente: lo spostamento della dialettica politica e delle scelte pubbliche dalle aule istituzionali ad altre sedi.

Quello di Roma non è un caso isolato. La riforma della scuola è stata presentata al meeting di Rimini, il governo Letta è stato dimissionato da un'assemblea di partito e la modifica della Costituzione è stata concordata al di fuori del Parlamento, tra un non eletto e un pregiudicato interdetto dai pubblici uffici.
Questa delega della decisione sulle vicende pubbliche a un partito, in questo caso il Pd, non è concepibile per almeno due ragioni. In primo luogo, i partiti sono associazioni private, senza (per ora) alcun obbligo di democraticità interna: sono, insomma, gruppi di persone che si sono scelte delle regole e che si uniscono per concorrere alle elezioni. Ma se anche il Partito democratico fosse perfettamente coerente con il nome che si è scelto, e, magari attraverso la riforma spesso proposta, anche tutti gli altri gruppi fossero vincolati a regole pubbliche di democrazia interna, il problema resterebbe: perché un partito continua a rappresentare solamente i suoi iscritti e, in caso, i suoi elettori, mentre le istituzioni e i loro componenti si rivolgono a tutta la cittadinanza, a prescindere dal voto espresso dai diversi individui.

Questo rifuggire dalla dialettica nei luoghi istituzionali sembra peraltro evidenziare un certo fastidio per la rappresentatività. Prova ne è ad esempio l'indifferenza per l'astensionismo, che pure ha segnato pesantemente elezioni come quelle regionali in Emilia-Romagna nel 2014, con l'affluenza ferma al 37,70%.

Ma anche il decisionismo del Governo, che spesso sostituisce alla dialettica parlamentare la decretazione d'urgenza o leggi delega in bianco, conferma questa fuga dalle sedi politiche istituzionali. Il sistema legislativo basato sulla rappresentanza parlamentare è soppiantato dalla vocazione plebiscitaria mitigata dalla farsa di una partecipazione dei cittadini, coinvolti per concessione dall'alto tramite consultazioni web e sporadici #matteorisponde su Twitter.

Questa tendenza ha però radici più profonde, che non si limitano alla nuova struttura del Pd renziano: l'atteggiamento di Orfini, l'aver affossato Marino, le scelte inappellabili di Renzi restano infatti una questione interna al partito. Se ai militanti del Partito Democratico sta bene consegnarsi adoranti al nuovo principe e accettarne ogni capriccio, il problema è solo loro: potrebbero anche introdurre lo ius primae noctis per il tesseramento o spartirsi le cariche con gare di tiro alla fune, se lo desiderano.
Quello che però non è accettabile è che questo disprezzo per la rappresentatività coinvolga anche le istituzioni, svuotandole di senso e servendosene solo quando sia necessaria un'approvazione formale, spesso estorta con cinici calcoli politici.

Perché le istituzioni non appartengono a nessuno e riguardano tutti. Certo, non sono perfette: le procedure potrebbero essere snellite, la rappresentatività man mano è stata ridotta (gli attuali parlamentari sono stati eletti con una legge poi dichiarata incostituzionale, ad esempio). Ma, al netto dei risolvibili problemi, le sedi preposte al dibattito pubblico sono disciplinate in modo da garantire quanto più possibile la democraticità nella formazione delle scelte che influiscono sulla cittadinanza intera, non solo sugli elettori e sugli iscritti del nuovo partito della nazione. E quella democratica è una garanzia che nessuna associazione privata, fosse anche il partito più corretto, potrebbe assicurare.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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