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Vi racconto chi era il mio amico Marco Pantani

Parla Enzo Vicennati, l’amico giornalista, lo scrittore che da dieci anni cerca la verità sulla morte di uno dei più grandi sportivi del secolo scorso.
A cura di Davide Falcioni
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Il 14 febbraio del 2004 era sabato. A Rimini coppie di fidanzati passeggiavano mano nella mano per il giorno di San Valentino, i negozi vicini al Porto Canale ammiccavano con cuori e peluches, sul bagnasciuga stavano abbracciati un ragazzo e una ragazza, nei ristoranti fioccavano prenotazioni, i pachistani venditori di rose facevano affari d'oro. In un residence Marco Pantani moriva. Da solo. Nel giorno che celebra l'amore, uno degli sportivi più amati di sempre tagliava l'ultimo traguardo. Da solo, come da solo era arrivato sull'Alpe D'Huez o a  Les Deux Alpes. Il referto dell'autopsia parlerà di edema polmonare e cerebrale conseguente a overdose di cocaina, ma in molti dissero che in verità il Pirata aveva iniziato a morire il 5 giugno 1999, dopo il controllo di Madonna Di Campiglio e l'allontanamento da un Giro d'Italia praticamente già vinto. La notizia fece il giro del mondo in pochi istanti. A Enzo Vicennati, amico di Marco Pantani e giornalista capo redattore della rivista leader del settore Bicisport, lo disse un amico fotografo. I giorni e gli anni che seguirono furono votati alla ricerca della verità. Perché Marco era morto? Quando, davvero, aveva iniziato ad andarsene? Vicennati scriverà un libro (Era mio figlio, editore Mondadori, con Tonina Pantani, madre del Pirata), poi proseguirà le ricerche per anni. "Se avessi saputo che stava morendo sarei corso da lui, l'avrei tirato fuori con la forza dal residence Le Rose". Ma ormai era tardi. Questa è l'intervista all'amico, al giornalista più vicino, all'uomo che da 10 anni cerca di far emergere tutte le verità su Marco Pantani.

“ Per un triste Re Cattolico – disse -ho inventato un legno e lui lo ha macellato su una croce di legno. ”
Rimini, Fabrizio De André

Enzo, come hai conosciuto Pantani? Chi era?
Al Giro d'Italia dilettanti del 1992, lui aveva 22 anni, io avevo iniziato da poco a lavorare come giornalista a Bicisport. Lo vidi la prima volta alla partenza della tappa che arrivava a Cavalese. Non ci avevo mai parlato prima, ma in giro si diceva che avrebbe attaccato sulle Dolomiti. Gli chiesi se l'avrebbe fatto, lui arricciò il labbro e rispose: “vediamo”. Finì che attaccò all'inizio del passo San Lugano e arrivò da solo. Il giorno dopo su un altro tappone dolomitico prese la maglia rosa e ipotecò il Giro d'Italia.

Come è nata la vostra amicizia?
La sera di quel tappone, da Cavalese a Pian di Pezzé, gli feci una lunga intervista. Mi accorsi con una certa sorpresa che non aveva nessuna difficoltà a raccontarmi aspetti della sua vita privata, era perfettamente a suo agio. Facevamo le stesse cose, avevamo gli stessi gusti in tema di vacanze, ad esempio. Lui però aveva già la macchina, una grossa Bmw, io prendevo ancora in prestito quella dei miei. Da lì la nostra frequentazione si fece più assidua: ci vedevamo tutti i mesi a Cesenatico o alle corse. Nacque così un rapporto di fiducia reciproca.

Dove eri il 5 giugno 1999? Eri a Madonna di Campiglio?
Ero ad Ascoli Piceno. Mi telefonò Ilario Biondi, fotografo di Bicisport, avvisandomi che Pantani era stato allontanato dal Giro. Ero tornato in redazione dopo la tappa di Oropa, Marco mi era sembrato nervoso, incupito. Era un Giro di tante tensioni, si era messa anche a girare la voce che Marco neppure lo avrebbe finito, anche se poi leggendo le parole di Vallanzasca sull'ipotesi di scommesse clandestine, tutto prese una luce diversa. Comunque, tornando alla telefonata del collega, lì per lì pensai a uno scherzo. Ironia della sorte, fu sempre Ilario a chiamarmi il 14 febbraio del 2004 per avvisarmi che Pantani era morto.

Cosa è successo da quel giorno in poi?
E' accaduto qualcosa che ancora non riesco a spiegarmi. Nessun organo mediatico decise di prendere le difese del più importante ciclista del mondo, nessuno mise in dubbio il risultato di quelle analisi e tutti i quotidiani iniziarono ad attaccare Pantani con una violenza inaudita. Marco però non accettò mai il risultato di quel controllo che non era antidoping, ma a tutela della sua stessa salute, la qual cosa continua a sembrarmi paradossale, vista la fine della storia, anche perché la sera prima era perfettamente in regola con i valori del sangue (Pantani venne allontanato dal Giro d'Italia per ematocrito alto, ndr). Da quel momento iniziò a chiedersi chi avesse voluto “farlo fuori”, i suoi avvocati arrivarono a parlare di “complotto”: da quel momento sette procure penali e una sportiva aprirono inchieste su Pantani.

Marco sapeva che l'avrebbero controllato: era la penultima tappa del Giro d'Italia. Gli ispettori arrivarono nel suo hotel più tardi del solito: se Marco avesse voluto invalidare il controllo gli sarebbe bastato fare colazione; invece aveva la coscienza pulita e si sottopose al prelievo (che, per regola, va fatto a stomaco vuoto, ndr). Chi era presente nella stanza dove venne effettuato il controllo racconta che un ispettore era particolarmente nervoso e si affrettò a far riconoscere a Marco solo una delle due provette. Inoltre pare che venne esaminato solo il sangue di una provetta (l'altra, venne detto, era rotta): ciò rappresentava una violazione del regolamento, che prevede che venga analizzato il sangue di due provette. Altra cosa abbastanza curiosa che finora non è mai stata detta: finora i familiari di Marco hanno sempre negato che da giovane, in seguito a una brutta caduta, la sua milza fosse uscita spappolata. In realtà recentemente è emerso ed è stato scritto che effettivamente la milza di Pantani aveva subito un grosso trauma per una caduta quando era junior. E' abbastanza noto, in letteratura medica, che un atleta senza la milza ha degli sbalzi di ematocrito notevoli. Perché nessuno l'ha approfondito? Con l'avvocato Salerno si stava lavorando anche su questo… Spero che con il nuovo legale si trovi la forza per approfondire e andare avanti.

I rapporti tra te e lui sono cambiati dopo Madonna Di Campiglio?
No, i rapporti tra me e Marco sono rimasti ancora buoni per almeno un anno: ci sentivamo regolarmente al telefono. Le cose sono cambiate quando è subentrata una nuova manager, Manuela Ronchi, che l'ha isolato dall'ambiente circostante. Da quel momento i nostri rapporti si sono diradati fino quasi a dissolversi, ma rimanendo comunque ottimi nelle poche occasioni nelle quali ci si vedeva. Ricordo al Giro del 2003, dopo la bellissima giornata dello Zoncolan, ci ritrovammo nella hall dell'hotel in Friuli e sembrò che tutto quel tempo non fosse mai passato, che quelle brutte cose non fossero accadute…

Ti fidavi di Pantani? Lui si fidava di te?
Immagino di sì. Quando ci incontravamo mi raccontava le sue cose. Ricordo, ad esempio, che mi chiamò quando morì mio padre per farmi le condoglianze. Ma parlavamo di tutto. Di caccia, di montagne, delle nostre famiglie…

Hai mai avuto la sensazione che potesse finire in quel modo?
Non ho mai avuto la sensazione che potesse finire in quel modo. Se avessi avuto il minimo sentore sarei corso da lui, l'avrei tirato fuori da quella camera. Oggi, tuttavia, mi rimane il senso di colpa. Se ho un rimpianto è quello di non aver fatto con lui un'ultima intervista a casa sua, proprio dopo quel Giro d'Italia del 2003, malgrado ci avesse dato tutta la disponibilità: Marco cercava molto il confronto al di fuori del suo ambiente. Forse non sarebbe cambiato molto, ma se avessi fatto quell'intervista gli avrei detto tutto quello che pensavo e mi piace pensare che avrei provato a tirarlo fuori dal baratro. Marco era un bravo ragazzo, era anche una persona “di destra”: di una destra fiera, per intenderci. Era una persona con la schiena dritta che a un certo punto ha iniziato a fidarsi di personaggi con i quali, a un tempo, non avrebbe neppure bevuto insieme una birra.

Eri a conoscenza dei suoi problemi con la droga?
Sì, mi accorsi che qualcosa non andava al Tour de France del 2000, quando malgrado tutto riuscì a staccare Lance Armstrong in salita. Parlando con il fisioterapista di Pantani era venuto fuori che aveva questo grande problema, dal quale era momentaneamente uscito ma nel quale sarebbe potuto ricadere. Tuttavia, avendolo visto rialzarsi dopo la frattura alla gamba, credetti che ne sarebbe uscito abbastanza facilmente. Invece non accadde: alla fine del 2003 arrivò a Bicisport una soffiata da ambienti romagnoli: ci misero in guardia, avvisandoci che Pantani era in pericolo di vita. Ricordo che ci mettemmo in contatto con Don Gelmini, ipotizzammo una via d'uscita per Marco: sarebbe dovuto andare in Colombia, in un villaggio di orfani, e lì avrebbe fatto “ambasciatore del ciclismo” tra i bambini più sfortunati. Pare che questo progetto fosse stato riferito a Marco, e che gli fosse anche piaciuto: ma ormai era troppo tardi.

Chi sono stati i suoi nemici e chi i suoi amici. Chi odiava Pantani? Era scomodo per qualcuno nel mondo dello sport italiano?
Sicuramente qualcosa c'è stato. Mi rifiuto di pensare che dietro l'accanimento di tutti i giornali non ci fosse qualcosa di più potente.

Ma perché avrebbero dovuto farlo? Pantani era il personaggio che faceva vendere più copie…
Questo è un interrogativo al quale non so rispondere. Perché uccidere la gallina dalle uova d'oro? Di sicuro una parte del gruppo (come, in gergo, vengono chiamati i ciclisti) era invidiosa di Pantani. Di certo ci fu uno scontro nel 1999 con la Mapei di Giorgio Squinzi (all'epoca dell'intervista presidente di Confindustria, ndr). Sicuramente c'è una parte della Federazione ciclistica italiana che si è schierata contro Pantani quando Marco si oppose ai controlli del Coni “Io non rischio la salute”: un'opposizione, va spiegato, non ai controlli antidoping, ma al fatto che contemporaneamente venissero effettuati da tre enti diversi. Bisogna ricordare che pochi mesi prima era stato chiuso il laboratorio del Coni dell'Acqua Acetosa a Roma perché era stato scoperto che non effettuava regolarmente i controlli sui campioni del campionato di calcio. Per quello il segretario Pescante si era dimesso. Il Coni, dopo quello scandalo, doveva dimostrare il contrario: ovvero che l'antidoping funzionava.

Per anni dopo la sua morte hai continuato a seguire la sua storia. A che punto sei arrivato?
A una grande frustrazione personale dalla quale ho cercato di uscire, di recente, riprendendo dei filoni del lavoro avviato con la famiglia di Pantani. Tutto però si è fermato davanti a personaggi interessati solo al denaro. Per anni ho tentato – insieme a Tonina, la madre di Marco – di ricostruire ciò che è accaduto dalla morte del Pirata a Madonna di Campiglio e quando credevamo di essere arrivati a un svolta importante ci siamo dovuti fermare per difficoltà spesso così futili, almeno dal mio punto di vista, da accrescere il disagio.

Credi che le indagini sulla sua morte siano state svolte nel modo più corretto?
Lavorando a stretto contatto con l'avvocato Salerno, il legale nominato per un paio di anni dalla famiglia Pantani, credo che ci siano state mancanze raccapriccianti. Credo che la polizia scientifica – entrata nella stanza dopo la morte – abbia commesso delle irregolarità pazzesche: erano gli agenti stessi a rovesciare tutto per terra, salvo poi scrivere nel referto che la stanza era completamente a soqquadro. In realtà, inoltre, quando i medici del 118 entrarono nella stanza tentarono di rianimare Marco. Allora mi domando: era davvero morto? Insomma, io non credo che le indagini siano state svolte nel migliore dei modi. Perché? Forse perché, trovato un drogato morto, qualcuno ha creduto di liquidare così il caso. Oppure, a pensarla male, si potrebbe credere che l'inchiesta andava chiusa in fretta, a tempo di record…

La figura di Pantani, dell'eroe romantico, del mito che crolla, è assimilabile a qualche personaggio del cinema o della letteratura? Se sì, a quale?
Pantani in bicicletta per me è Billy Elliot, il ballerino. In una scena del film il bambino, davanti alla commissione che avrebbe dovuto approvare la sua iscrizione alla scuola di danza, dice: “Quando ballo sono elettricità”. Pantani in bicicletta era elettricità, era qualcosa di entusiasmante per l'energia, la vita, il guizzo che aveva negli occhi. Se devo dirti la verità io penso a Marco come a “elettricità”, non come a un eroe tragico. Secondo me nella tragedia di Pantani ci sono tante colpe non attribuibili a lui. Cercare di farlo sembra l'ultimo scherzo tragico del destino. E francamente, se posso permettermi, credo che le celebrazioni del decennale della morte siano per tanti motivi fuori luogo. Se tanta gente che oggi scrive libri e articoli avesse avuto un pizzico di pietà e di carità cristiana dal 1999 in poi forse oggi non celebreremmo la morte di Marco. E poi, se c'è qualcosa da celebrare davvero, semmai è la sua nascita. Campioni come lui non nascono tanto spesso e non possono bastare queste risposte alle vostre domande per raccontarlo e spiegare che cosa abbia rappresentato per me quel ballerino della bici, con gli occhi elettrici e insieme lucidi, come se in fondo da qualche parte avesse la consapevolezza del suo destino.

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