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Opinioni

La ricetta dell’Fmi per l’Italia: riforme e meno tasse

Per l’Fmi all’Italia servono più riforme e meno tasse: la ricetta può non piacere ma appare sensata visto il peso raggiunto dal fisco nel Belpaese. Occorre tuttavia coniugarla con misure europee a favore della crescita…
A cura di Luca Spoldi
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Chigi - consiglio dei ministri

Sulla carta sembrano consigli di gran buon senso quelli dell’Fmi all’Italia e ad altri paesi dell’Eurozona come la Spagna: rafforzare le banche, accelerare la riforma dei servizi (nel caso italiano in verità occorrerebbe quanto meno avviarla, visto che finora la resistenza delle caste professionali ha ridotto a poca cosa ogni tentativo di innovare il settore e aprirlo maggiormente alla concorrenza), portare avanti quelle riforme, come per il mercato del lavoro, sulle quali si sono ottenuti i primi progressi ma che debbono essere quanto meno completate, ridurre più in generale la presenza dello Stato nell’economia.

Quest’ultimo punto sembra destinato a produrre le maggiori resistenze “ideologiche” ma un riequilibrio appare inevitabile stante un livello di prelievo fiscale che appare insostenibile a lungo termine per i contribuenti onesti (essendo già ora superiore al 50%) e che sta contribuendo a spegnere la natalità delle imprese come già certificato dall’Istat.

Le incertezze sulla durata della crisi e sull’efficacia dei provvedimenti varati sembrano poi continuare a indurre gli investitori a spostarsi dai paesi dell’Europa del Sud verso quella del Nord, facendo tornare a salire la percentuale di debito pubblico detenuta da investitori nazionali (sostanzialmente banche, ndr): secondo l’Fmi, infatti, se a fine 2009 la quota de debito pubblico detenuta da non residenti era rispettivamente del 44% e del 48% in Italia e Spagna, a fine 2011 era ridiscesa al 34% e al 33%.

Il consiglio dell’organizzazione guidata da Christine Lagarde è dunque: meno tasse e meno burocrazia, maggiore concorrenza, mercato del lavoro più flessibile. Una ricetta “liberista”che non cambia da anni e che però fatica a fare breccia in un paese come l’Italia dove la cultura d’impresa è vista con sospetto (in molti casi non senza giustificato motivo, purtroppo) e dove oltre che calciatori o veline molti ragazzi e ragazze ancora sognano di riuscire in qualche modo a trovare un “posto fisso”.

Anche perché, va detto, tuttora il sistema creditizio non offre molto specialmente a chi non è in grado di offrire garanzie “solide” (come un reddito da lavoro dipendente a tempo indeterminato), tanto che negli ultimi giorni è emerso con evidenza che a subire la contrazione del credito più forte sono le coppie giovani e non sposate, che spesso non riescono a ottenere mutui o finanziamenti a lungo termine (e magari per questo restano a casa dei rispettivi genitori, finendo con l’essere accusati di essere “bambaccioni” o “sfigati” dal ministro di turno).

Eppure su una cosa l’Fmi ha ragione e anche gli amanti delle teorie “complottiste” più estreme non potranno negarlo: di tasse in Italia ce ne sono ormai troppe, ovunque. Il che sommandosi a una scarsa propensione al rischio di molti imprenditori (coniugata ad una elevata tendenza a comportamenti collusivi per cercare di mantenere margini di profitto più elevati, quando non a comportamenti evasivi delle imposte) e all’arretratezza culturale del Paese anche in termini industriali/economici, porta a volte a tristi primati.

Ad esempio a quello del costo della benzina che, come ha testimoniato di recente l’Economist, è salita in Italia (tra febbraio 2011 e febbraio 2012) più che in qualsiasi altro paese al mondo (oltre il 18% di incremento sui prezzi della benzina al litro) pur essendo già a livelli elevati (in media circa 1,72 euro al litro, il terzo prezzo più alto dopo quelli di Norvegia e Olanda).

Mentre non possiamo che apprezzare la decisa smentita in audizione alla Camera dei Deputati da parte del ministro dell’Economia e finanze, Vittorio Grilli, all’ipotesi di un’ennesima “manovra” estiva e il suo ribadire il concetto che dall’Eurozona (ossia dalla Germania) sono giunte finora risposte “non pienamente soddisfacienti” riguardo agli  strumenti con cui combattere la crisi (l’Esm andrebbe reso operativo al più presto, al fiscal compact andrebbe finalmente affiancato un fiscal growth che ridia vigore alla crescita o ogni tentativo pur virtuoso di limare il debito di paesi come la Spagna, l’Italia ma anche il Portogallo o l’Irlanda, per non dire la Grecia, appare destinato a essere vanificato da nuovi cali del Pil), occorre pure, come ammette Grilli, creare le “condizioni per una ripresa sostanziale e duratura della crescita economica e dell'occupazione nei Paesi europei”, ridando loro “la competitività necessaria per svolgere il ruolo politico ed economico che loro compete nel mutato quadro economico mondiale”.

Il che in ultima analisi vorrebbe dire imparare da Berlino ad essere più competitivi e dunque, potenzialmente, sottrarre quote di mercato anche alle aziende tedesche. Già: sarebbe ottimo, se solo pensate a cosa vorrebbe dire ad esempio in campo automobilistico avere una Fiat in grado di fare concorrenza a Daimler o Bmw oltre che a Volkswagen. Peccato che per riuscirvi occorre anzitutto un cambio culturale non riproducibile in pochi mesi, secondo un sistema bancario adeguato in grado di supportare gli investimenti del settore privato o un settore pubblico più efficiente e meno burocratizzato dell’attuale che possa offrire non solo incentivi fiscali ma anche una fattiva assistenza al mondo delle imprese.

Perché mi è così difficile pensare che per l’Italia sia giunta l’ora di una grande rivoluzione culturale e perché temo invece che anche questa volta la montagna partorirà soltanto qualche topolino e ci vorranno ancora anni di lento e sofferto recupero prima di poter archiviare la crisi, col rischio di bruciare completamente le prospettive di vita e di lavoro di un’intera generazione? Sarà il caldo o la stanchezza, di certo non posso (non possiamo) permetterci di indugiare troppo in chiave pessimistica, anzi occorre reagire e pretendere che anche la politica, la finanza e l’industria facciano la loro parte.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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