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Opinioni

La difficile strada di Conte, il premier che “parla poco” e che rischia di contare meno

La distanza fra le promesse della campagna elettorale (e quelle della fase pre-accordo) e quanto fatto nei primi mesi del Governo Conte è abissale. Lo dicono i numeri e lo mostra la scarsissima attività di Camera e Senato in queste settimane. Dopo la pausa estiva, però, le cose dovranno necessariamente cambiare. Ed è allora che Conte giocherà la sua partita più importante: quella dell’autonomia e della legittimazione.
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C’è un passaggio piuttosto rivelatore dell’intervista al direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “Gli italiani sono più interessati alle iniziative del governo che alle parole dei governanti. Parlerò un po’ di più, ma solo quando avrò qualcosa da dire di concreto su quello che sto facendo”: così Conte giustifica la scelta, forzata o meno, di un profilo più basso, con i riflettori che restano puntati sui due vicepresidenti, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Una posizione scomoda, dalla quale Conte prova a uscire ribaltando il concetto: “Avere al mio fianco i due leader dei partiti di maggioranza è persino un vantaggio, perché mi evita le liturgie dei vertici di coalizione e rende più diretto il confronto e più spedito il percorso del governo”.

Queste prime settimane, in realtà, non depongono a favore della lettura proposta dal Presidente del Consiglio. Che deve fare i conti con un Salvini che ha utilizzato la sua posizione privilegiata per dettare l’agenda politica e rafforzare il proprio consenso personale, mettendo de facto in crisi alcuni concetti cardine del patto fra Lega e M5s: la collegialità delle decisioni, la funzione di guida politica e di indirizzo che spetta al Presidente del Consiglio, il rispetto dei ruoli e delle competenze dei singoli ministri. E deve fare i conti anche con l’attivismo di Luigi Di Maio, l’unico capace di una caratterizzazione diversa in queste settimane, con il decreto Dignità che, critiche e polemiche a parte, si configura come il primo vero intervento organico del nuovo governo. Conte ha subito passivamente l’azione di entrambi ed è stato costretto ad assecondarne le priorità (davvero si può parlare di “vittoria politica” per poche centinaia di migranti accolti da altri paesi europei, nella consapevolezza che, a parte qualche vuota promessa e qualche strana disponibilità, non è cambiata di una virgola la linea in tema di immigrazione?), oppure a provare a comporre le frizioni (come nel caso della “manina” sul decreto Dignità o delle nomine in Cassa depositi e prestiti).

La distanza tra le promesse e i proclami dei primi giorni di governo e quanto realizzato nei primi mesi è abissale, tanto è vero che ora nella compagine di governo il mantra è diventato “dobbiamo portare a casa qualcosa”, meglio se prima della pausa estiva. E soprattutto prima che il Parlamento sia impantanato da una complessa legge di bilancio, che rischia di essere davvero la resa dei conti tra M5s e Lega: con risorse inevitabilmente scarse e stante la prudenza di Tria, occorrerà operare delle scelte e rinunciare a molto più di qualcosa. Si spiega così il nervosismo dei leghisti sulla legittima difesa e la decisione con cui il Movimento difenderà l’impianto base del decreto Dignità nei passaggi parlamentari dagli assalti dell’alleato leghista. Solo le avvisaglie di ciò che accadrà a settembre, quando i ministri saranno chiamati a fare i conti con la realtà e con margini di manovra molto ridotti.

Conte rischia così di trovarsi in mezzo a una tempesta, senza la legittimità per dirimere le questioni centrali, il prezzo da pagare per l’anomalia di essere un premier “tecnico” indicato dai leader dei due principali partiti italiani. E con il governo che ha di fronte un ulteriore ostacolo, stavolta di natura tecnica: la mole di lavoro ereditata dai precedenti governi, cui si aggiungerà quella determinata dai primi atti del nuovo Cdm. Come ricorda OpenPolis, “il governo Conte ha ereditato dalla scorsa legislatura 641 provvedimenti attuativi ancora da adottare, 251 risalenti al governo Renzi e 390 a quello Gentiloni”; in particolare, ci sono alcuni provvedimenti chiave ancora incompiuti, “tra questi numerose leggi di bilancio che, per natura, richiedono un elevato numero di decreti attuativi. Quella del 2015 (governo Renzi) necessità ancora di 14 decreti attuativi su 85 previsti, quella del 2016 (governo Renzi) di 23 su 125, quella del 2017 (governo Renzi) 21 su 77 e infine quella del 2018 (governo Gentiloni) 97 su 149”.

Conte e i suoi ministri a sgobbare sulle carte e Di Maio e Salvini con le mani libere e margini di manovra molto più ampi, grazie alla doppia veste di ministri e leader politici, insomma? Il rischio c'è, ma Conte sembra intenzionato a cambiare marcia. L'occasione è proprio la legge di bilancio. Quando, come detto, occorrerà decidere. Anche parlando poco.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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