La Consulta dà ragione a Napolitano: “Distruggere intercettazioni”. Ingroia: “E’ una sentenza politica”

Non spettava alla Procura di Palermo «valutare la rilevanza delle intercettazioni del Presidente della Repubblica», e «omettere di chiedere al giudice l'immediata distruzione» di tali documentazioni. Così ha deciso la Corte Costituzionale, dando ragione a Giorgio Napolitano che aveva sollevato conflitto di attribuzione sul caso delle intercettazioni indirette delle conversazioni telefoniche tra il Quirinale e l'ex ministro Nicola Mancino, coinvolto nell'inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Di conseguenza, le intercettazioni in questione, mai rese pubbliche, dovranno essere distrutte «con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti».
Vince su tutta la linea il Quirinale. Esce sconfitta la procura di Palermo. La Consulta sembra dunque aver condiviso in piena la sostanza del ricorso del Colle che il 30 luglio aveva sollevato il conflitto tra poteri dello Stato, tramite l'avvocatura di Stato, secondo la quale «la Procura di Palermo ha trattato queste intercettazioni come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime», creando un «vulnus nella riservatezza del Presidente». Oggetto della disputa quattro telefonate tra Mancino e Napolitano intercettate dai magistrati siciliani, che da tempo tenevano sotto controllo l'ex presidente del Senato , indagato perché sospettato di essere uno degli protagonisti della trattativa. Le argomentazioni che hanno portato alla decisione saranno rese note entro gennaio
Ingroia: "E' una sentenza politica, mi sento cornuto e mazziato" – «Il Presidente della Repubblica ha atteso serenamente e ha accolto con rispetto la sentenza della Corte Costituzionale di accoglimento del ricorso per conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo. Il Capo dello Stato attende ora il deposito delle motivazioni del giudizio» si legge in una nota del Quirinale. «Profondamente amareggiato» dalla sentenza della Corte Costituzionale è l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia che, dal Guatemala, in due interviste a ‘Repubblica' e al ‘Corriere della Sera', definisce la decisione dei giudici «un brusco arretramento rispetto al principio di uguaglianza e all'equilibrio fra i poteri dello Stato». Ingroia accusa la Consulta: «le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto».
Il comunicato emesso da' la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico. Del resto non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese"
E poi spiega: «se noi avessimo fatto quello che oggi sostiene la Corte, e cioè trasmettere le telefonate al giudice chiedendo la distruzione delle conversazioni senza contraddittorio con le parti, il giudice avrebbe ordinato il deposito e il contraddittorio con tutte le parti del procedimento, facendole inevitabilmente diventare pubbliche». Insomma, secondo il magistrato siciliano «noi non abbiamo preso quella strada, preoccupandoci di preservare al massimo la riservatezza delle conversazioni del presidente. E questa è la ricompensa». In conclusione, dice Ingroia, «questa sentenza è paradossale perché suggerisce una prassi che ci obbliga di fatto a rendere pubbliche le intercettazioni, dopo averci esposto all’onta di un conflitto di attribuzione. Oggi siamo cornuti e mazziati».