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L’Opec non taglia, il petrolio cade: chi ci guadagna e chi ci perde

L’Opec non taglia la produzione e i prezzi crollano sui 70,35 dollari al barile. Immediato tonfo di Saipem, Eni e Tenaris in borsa, ma chi è che realmente ci guadagna e chi ci perde da simili prezzi dell’oro nero?
A cura di Luca Spoldi
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Mentre Wall Street resta chiusa per la festività del Thanksgiving, a Vienna l’Arabia Saudita blocca ogni taglio alla produzione Opec che resta dunque limitata a un massimo di 30 milioni di barili al giorno e non a 28,5-29 milioni come prevedevano (assegnando una probabilità del 60%) tra gli altri gli esperti di Societe Generale solo una settimana fa. Immediata la reazione del petrolio che vede le quotazioni cadere sui minimi degli ultimi 4 anni a 70,35 dollari al barile, mentre a Piazza Affari Saipem (società del gruppo Eni che si occupa di trivellazioni e infrastrutture petrolifere) cade del 4,5% imitata da Tenaris (società controllata dalla famiglia Rocca) che chiude a -3,7% e dalla stessa Eni (-2,2%) che fino a poco prima della notizia del nulla di fatto dell’Opec aveva tentato di mantenersi vicino ai livelli di ieri.

Ma a chi fa male e a chi fa bene un petrolio attorno ai 70 dollari al barile e comunque ancora per molti mesi sotto gli 80 dollari, come prevedono ora gli analisti delle principali case d’investimento? Si sarebbe tentati dal rispondere: fa bene ai consumatori, fa male ai produttori. Ma la risposta non è del tutto corretta. Anzitutto tra i produttori occorre distinguere, visto che l’Opec (che ormai non rappresenta più di un terzo della produzione mondiale di petrolio) vede al suo interno paesi come il Kuwait (per il quale si stima un punto di pareggio, ossia un livello dei prezzi al quale i ricavi coprono i costi, attorno ai 54 dollari al barile), il Qatar (60 dollari al barile) e gli Emirati Arabi Uniti (circa 77 dollari al barile) che possono permettersi persino di veder scendere i prezzi ancora di qualche dollaro attorno ai 65-60 dollari al barile, mentre altri, come l’Iraq (appena sopra i 100 dollari al barile il punto di pareggio) o l’Arabia Saudita (106 dollari al barile) già ora vivono con un qualche disagio le attuali quotazioni anche se, nel caso dell’Arabia Saudita, possono sopportare ancora prezzi bassi per alcuni mesi grazie ad ingenti utili pregressi.

C’è infine un ultimo gruppo di produttori come il Venezuela (117 dollari al barile), la Nigeria (123 dollari al barile), l’Algeria e l’Iran (entrambi con un punto di pareggio poco sopra i 130 dollari al barile), non a caso tra i più favorevoli a una riduzione del tetto massimo di produzione così da sostenere i prezzi, che perdono dollari per ogni barile di petrolio che estraggono. E gli Stati Uniti e la Russia? Nel primo caso i giacimenti “storici” presenti in stati come Texas, Oklahoma, Louisiana, Kansas e Arkansas vedono un punto di pareggio attorno ai 75 dollari al barile, il che significa che già oggi sono in affanno. Ma i produttori di “shale oil” riescono per ora a estrarre petrolio dallo scisto roccioso a prezzi molto più competitivi, con un punto di pareggio tra i 53 e i 78 dollari al barile. Tutto l’opposto in Russia, dove il punto di pareggio viene stimato mediamente attorno ai 102 dollari al barile.

Per quanto riguarda poi il campo dei consumatori, è certamente vero che il calo dei prezzi petroliferi è una forma di deflazione “buona”, molto diversa dalla deflazione “cattiva” (da salari e da calo della domanda) cui siamo abituati da alcuni anni in Europa. Anzi alcuni analisti ritengono che proprio il calo dei costi dei prodotti energetici (riscaldamento e carburanti in primis, ma anche costo di produzione dell’energia elettrica) finiranno per dare una mano ai consumi e in questo modo alla stentata ripresa economica del vecchio continente. Ma anche in questo caso non tutti i paesi sono uguali a causa del differente peso delle accise. Si prenda la benzina: in Italia il prezzo medio oscilla attualmente attorno a 1,718 euro al litro (il gasolio per autotrazione sta attorno a 1,616 euro al litro), con un miglior prezzo attorno a 1,687 euro, in Toscana (mentre il gasolio meno caro si trova in Umbria a 1,59 euro al litro). Bene, anzi male perché come già ebbi modo di segnalare a luglio sul prezzo di benzina e gasolio in Italia si scontano accise pari a 0,731 euro e a 0,62 euro al litro rispettivamente (pari al 74% e al 62% circa del rispettivo costo industriale).

Indovinate qual è il paese in Europa col prezzo della benzina più alto? No, non è l'Italia: secondo GlobalPetrolPrices.com è la Norvegia (1,782 euro al litro in media), ma subito dopo c’è proprio l'ex bel paese, che precede di un niente l’Olanda (1,71 euro al litro). In Francia e in Germania in compenso la benzina costa al momento attorno a 1,42-1,422 euro al litro, in Gran Bretagna, nonostante i giacimenti del Mare del Nord e la sterlina “forte”, attorno all’equivalente di 1,542 euro, in Spagna in compenso si sta intorno a 1,30 euro al litro, in Slovena viaggiamo poco sotto gli 1,40 euro al litro, in Croazia appena sopra l’equivalente di 1,25 euro. Ironicamente, ma non troppo, in Russia la benzina costa al momento l’equivalente di 0,639 euro al litro. Ora non c’è bisogno di essere un laureato in finanza internazionale per capire che a dannarsi maggiormente per prezzi così bassi saranno proprio la Russia e i suoi (ex) alleati nel Golfo Persico e in America Latina, il che potrebbe corrispondere ad un disegno di “politica petrolifera” di cui si parla da qualche mese e che vorrebbe l’Arabia Saudita e gli Usa alleati nel tentativo di mettere la Russia di Vladimir Putin (e i sembre “sorvegliati speciali” Iraq e Iran) nell’angolo.

Peccato che l’Italia, a causa dei suoi peccati pregressi, ossia di un debito pubblico che l’assenza pluridecennale di una qualsivoglia crescita del Pil ed l’incapacità di riqualificare e/o ridure significamente la spesa pubblica (specie quella corrente) rende ogni giorno meno sostenibile, rimanga strangolata da tasse e accise di varia natura e vario peso e non sia in grado di approfittare appieno dell’insperato regalo di Natale. Di cui rischiano invece di avvantaggiarsi paesi confinanti che già fanno a gara per attrarre aziende anche italiane grazie ad un fisco più “amichevole” verso le imprese e ad un costo del lavoro che è ancora una frazione di quello italiano. Ci sarebbe di che riflettere seriamente, se alla guida del paese ci fossero ancora uomini in grado e interessati a farlo. Voi che ne dite?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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