Scoperta una proteina chiave nel cancro al colon: la sua presenza indica chi non risponderà alla chemio

Il cancro del colon è un tumore piuttosto diffuso: negli uomini è il terzo più frequente, dopo il tumore del polmone e quello della prostata, mentre nelle donne è il secondo, dopo solo il tumore al seno. Rappresenta la seconda causa di morte a livello globale per tumore. Negli ultimi anni è in aumento anche nelle persone più giovani, soprattutto nei Paesi Occidentali, dettaglio che ha spinto molti esperti a suggerire un collegamento tra l'abbassamento dell'età media di prima insorgenza e la dieta occidentale, ricca di zuccheri raffinati e alimenti ultraprocessati e povera di frutta e verdura.
Per quanto riguarda invece le terapia oggi impiegate nel trattamento di questi tumori, nel caso dei tumori del colon metastatici non operabili il trattamento standard si basa sulla chemioterapia. Tuttavia, circa la metà di questi pazienti non risponde al farmaco e questo significa che la terapia può rivelarsi inefficace. Ora, però, un importante studio condotto dall’IRCCS Istituto di Candiolo di Torino, un centro oncologico di eccellenza a livello internazionale, con la collaborazione di università italiane e spagnole, ha scoperto un marcatore che potrebbe predire se un paziente con questo tipo di tumore risponderà o meno alla chemioterapia: la proteina chiave, RAD51.
Qual è la proteina chiave
Lo studio, coordinato da Livio Trusolino e Andrea Bertotti, responsabili del Laboratorio di Oncologia Traslazionale dell’Irccs di Candiolo e professori ordinari di Istologia presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, aveva proprio questo obiettivo: scoprire le cause della resistenza alla chemioterapia manifestata da molti pazienti con tumore al colon metastatico.
Per riuscirci i ricercatori dell'Istituto Candiolo hanno studiato organoidi tumorali, ovvero riproduzioni 3D in miniatura, del tumore, realizzate a partire da campioni prelevati da pazienti affetti dalla malattia. In questo modo hanno potuto osservare cosa succedeva quando veniva somministrato un trattamento chemioterapico molto comune, il Folfiri: "Gli organoidi sensibili subivano un forte danno al Dna dopo esposizione al Folfiri, mentre in quelli resistenti il Dna appariva sostanzialmente intatto", ha spiegato Marco Avolio, tra i ricercatori che hanno preso parte allo studio. Questo dato ha spinto i ricercatori a supporre che la resistenza fosse legata a "un’alta capacità di riparazione delle lesioni alla struttura del Dna" provocate dalla chemioterapia.
Com'è stato condotto lo studio
Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno analizzato in modo sistematico le proteine coinvolte nella riparazione del DNA, fino a quando non ne hanno individuato una che era molto più espressa negli organoidi con capacità di riparazione delle lesioni nel Dna: RAD51. Questa infatti, una volta inserita negli organoidi sensibili alla chemioterapia diventavano a loro volta resistenti. Questa è stata la prova del ruolo di RAD51 come "marcatore funzionale di resistenza".
Un ulteriore conferma è arrivata poi con il passaggio dallo studio degli effetti della proteina nei modelli sperimentali alla verifica nei pazienti. Per farlo è stato avviato uno studio successivo su 80 pazienti italiani e spagnoli a cui è stato somministrato lo stesso farmaco chemioterapico: anche in questo caso elevati livelli della proteina erano associati in modo sistematico alla mancata risposta del tumore al farmaco chemioterapico.
Come può cambiare la terapia per i pazienti
Questa scoperta – spiegano e si augurano gli autori – può migliorare in modo significativo l'approccio terapeutico: da una parte perché la presenza di questa proteina, che è facilmente misurabile, può permettere di individuare fin da subito i pazienti che non avranno benedici dalla chemioterapia standard e che quindi potranno invece ricevere una terapia diversa.
Inoltre, conoscere la causa della resistenza può essere il punto di partenza per capire come inibire la proteina e rendere i tumori resistenti di nuovo sensibili alla chemioterapia. Ci sono già dei tentativi in corso per farlo: dato che bloccare la proteina RAD51 – spiegano gli autori – non è possibile a livello clinico, la strada oggi al vaglio punta a individuare un farmaco che inibisca ATM, la proteina che controlla la funzione di RAD51. Attualmente farmaci di questo tipo non sono ancora disponibili, ma alcuni candidati sono già in fase di sperimentazione clinica.