1.316 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

“Fare ricerca in Italia mi ha portato fino alla Nasa. Per questo voglio rimanere qui”: la storia di Paola Pontecorvi

Paola Pontecorvi è una biologa italiana che ha scelto di fare ricerca in Italia. È appena tornata da un progetto di ricerca nei laboratori della Nasa, a cui ha preso parte come ricercatrice dell’Università Sapienza di Roma, nell’ambito di un progetto di collaborazione con l’ateneo romano. Grazie ai fondi del Pnrr, è stata assunta come ricercatrice a tempo determinato, ma alla scadenza del contratto non è certa che sarà rinnovata. Eppure è convinta della sua decisione: “In Italia sai che qualsiasi cosa vorrai fare ti dovrai impegnare il doppio, ma farcela non è impossibile”.
Intervista a Paola Pontecorvi
Ricercatrice a tempo determinato per il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza
1.316 CONDIVISIONI
Immagine

"Le difficoltà ci sono, ma poi prima o poi arriva quella scoperta che aspettavi da tempo e ti ricordi che stai facendo il lavoro più bello al mondo". Classe 1992, Paola Pontecorvi è appena tornata dai laboratori della Nasa, a Cape Canaveral, in Florida, dove ha lavorato a un progetto di ricerca sugli effetti della microgravità sulla fertilità femminile, a cui ha potuto partecipare in quanto ricercatrice dell'Università Sapienza di Roma.

Una laurea in Genetica e biologia molecolare e un dottorato di ricerca in Biologia Umana e Genetica all'Università Sapienza. Intanto due esperienze di studio e lavoro negli Stati Uniti, l'ultima alla Nasa e la prima alla School of Medicine dell'University of California San Diego. Quella di Pontecorvi è la storia di una giovane ricercatrice italiana che ha scelto di non lasciare il suo Paese. A Fanpage.it ha raccontato cosa significa avere 30 anni e fare ricerca oggi in Italia.

Il suo lavoro oggi in poche parole: a cosa sta lavorando e dove?

Sono una ricercatrice a tempo determinato per il Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza. Al momento sto lavorando a due progetti di ambito green sulle microplastiche. Uno incentrato sull’impatto sulla salute femminile delle microplastiche contenute negli assorbenti e nei cosmetici e il secondo sulla bioremediation – biorisanamento – delle microplastiche in ambienti acquatici attraverso le microalghe. Quest'ultimo è un progetto su cui stiamo lavorando in collaborazione con la Stazione Zoologica di Napoli Anton Dohrn.

Ha un contratto vero e proprio quindi? 

Sì e no. Nel senso che come tanti altri giovani ricercatori italiani, anche io sono stata assunta da poco come ricercatrice grazie ai fondi destinati dal Pnrr ai progetti di ricerca a tema green, ma si tratta comunque di un contratto a tempo determinato di tre anni. Certo, rispetto all'iter tradizionale che fino a qualche anno fa doveva fare in media un ricercatore italiano prima di arrivare a un contratto vero e proprio siamo stati fortunati, ma è una fortuna che non sappiamo quanto durerà.

Spieghiamo meglio.

Facciamo un esempio, parlo del contesto che conosco meglio: non tutti i ricercatori che sono stati assunti nelle università italiane potranno essere stabilizzati. Ci sono tante variabili da tenere in conto. Soprattutto non è affatto scontato che senza i finanziamenti del Pnrr, o altre forme di investimenti pubblici, le università avranno i fondi per continuare a pagarci. Non dipende ovviamente dalle singole università, ma dalla mancanza di di investimenti.

Quali sono gli scenari possibili alla scadenza del contratto?

Per i ricercatori che non verranno rinnovati il rischio è quello di rimanere di nuovo a mani vuote. Oppure dovremmo essere costretti a fare un passo indietro, tornando agli assegni di ricerca o ad altre forme contrattuali a progetto. In una parola: il precariato. È stato sicuramente bello poter mettere un piede nel mondo accademico, ma l'incertezza sul futuro c'è ancora.

Insomma, poche certezze davanti, nonostante le esperienze passate. Com'è stato fare ricerca nei laboratori delle Nasa? 

Fare ricerca negli Stati Uniti è stato sicuramente molto stimolante. Devo dire però che quest'opportunità non sarebbe mai stata possibile grazie all'Università Sapienza, dove attualmente lavoro. La differenza principale che ho osservato riguardano i servizi per il benessere del ricercatore che offrono le strutture negli Stati Uniti e che rendono la vita complessiva un po' più semplice.

Cosa intende per benessere del ricercatore? 

Non solo. Parlo di un concetto diverso di "vita da ricercatore". Nelle università degli Stati Uniti ci sono dei servizi studiati appositamente per permetterti di fare altro mentre attendi il tempo del tuo esperimento: sale relax, palestre, aree per i figli e le famiglie. Il ricercatore è facilitato e questo ti fa sentire gratificato e motivato. Ma mentre ero fuori, devo ammettere, che mi sono mancate anche molte cose del fare ricerca in Italia.

Però è tornata in Italia. Fare ricerca qui le dà qualcosa che all'estero non ha trovato?

Devo essere sincera, a rischio di sembrare scontata, ma qui in Italia, forse proprio perché noi ricercatori dobbiamo adattarci con quello che abbiamo, siamo spinti a lavorare molto in team, anche tra università o strutture diverse. In Italia si tende a collaborare e a mettere in comune le competenze, mentre negli Stati Uniti c'è un approccio molto più individualista. Penso che sia questa capacità di lavorare in squadra a costituire il punto di forza della ricerca italiana.

C'è stato un momento in cui ha pensato "Io in Italia non torno più"?

Subito dopo essere tornata dalla mia prima esperienza di ricerca in California durante il primo anno di dottorato. In quel momento ho pensato: "Finisco il dottorato e me ne vado all'estero". Penso che sia normale perché quando fuori ti rendi conto di come in Italia a volte le cose possano essere più difficile. Per fare la stessa cosa, lo stesso esperimento o la stessa ricerca, sai che in Italia ti dovrai impegnare il doppio. Così come sai che la tua carriera qui sarà più difficile.

Qui ci sono meno opportunità lavorative?

Prima parlavamo degli assegni di ricerca: in Italia una giovane ricercatrice come me si sente quasi miracolata se ne ottiene uno, nelle università statunitensi è più facile. Inoltre negli Stati Uniti ci sono molte più opportunità lavorative perché sono le stesse aziende a puntare sulla ricerca e ad assumere i ricercatori, soprattutto in California dove ci sono le principali aziende farmacologiche, in Italia invece non c'è questo collegamento diretto tra aziende e ricerca.

Un consiglio per i ragazzi che stanno valutando questa opzione?

Probabilmente la cosa più importante da chiedersi se si vuole prendere questa strada è se si è abbastanza convinti. Non penso che sia impossibile fare ricerca in Italia, ma ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà che si possono presentare mentre percorri la strada: se sei convinto che la ricerca sia il tuo lavoro, ce la fai a superarli, altrimenti no. A livello pratico, invece, consiglio assolutamente di fare una o più esperienze all'estero: oltre a essere apprezzato molto nel mondo del lavoro, ti fa crescere davvero.

Se tornassi indietro, sceglieresti ancora la ricerca? 

Su questo non ho dubbi. Anche se a volte può essere molto stressante, poi c'è quella giornata, quella scoperta che ti ricorda che stai facendo il lavoro più bello al mondo. Forse non il più facile, ma sicuramente il più bello.

1.316 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views