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Covid 19

La pandemia ci ha insegnato che non si deve andare a lavorare con l’influenza, non dimentichiamocene

Nonostante fosse profondamente sbagliato, andare a lavoro con l’influenza era comune prima della pandemia di COVID. Non commettiamo più questo errore.
A cura di Andrea Centini
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La pandemia di COVID-19 ha avuto – e sta avendo tuttora – un impatto sanitario, sociale ed economico catastrofico, che più volte è stato paragonato a quello di un grande conflitto globale. Nel corso di questi ultimi due anni, carichi di sofferenza, lutti, sacrifici e (doverose) limitazioni delle libertà personali per un bene superiore, spesso si è detto che ne “usciremo migliori”. Se sarà effettivamente così lo scopriremo solo in futuro – la pandemia, del resto, è tutto fuorché finita -, ma una lezione molti di noi l'hanno sicuramente imparata: andare a lavoro con l'influenza è stupido, egoista e assolutamente sbagliato, nonostante la distorta visione stacanovista Occidentale spinga ad agire diversamente. “Che saranno mai un po' di febbre e qualche colpo di tosse, basta il paracetamolo e via”, si pensava diffusamente fino a un paio di anni fa, escludendo gli altri dall'equazione.

Ma se già in passato era assai fastidioso avere qualcuno accanto con evidenti sintomi influenzali, oggi lo troveremmo fermamente inaccettabile e del tutto insopportabile. Abbiamo imparato le regole del distanziamento fisico/sociale, l'importanza dell'uso della mascherina per ridurre il rischio di infettare gli altri e/o di essere infettati e quella di una costante e certosina igiene delle mani; un prezioso bagaglio di esperienza che in futuro ci aiuterà a difenderci anche da patologie comuni ma da non sottovalutare come l'influenza. Soltanto in Italia si contano circa 8mila vittime all'anno associate all'influenza e alle sue complicazioni, come riportato dall'Istituto Superiore di Sanità (ISS). Quante persone si sarebbero potute salvare se i contagiati fossero rimasti a casa invece di recarsi comunque a lavoro, ad affollare tram, autobus e metropolitane forti della terapia sintomatologica? Quanti morti si sarebbero potuti evitare se, nelle situazioni di rischio, in pieno inverno, tutti fossimo stati abituati a indossare le mascherine?

L'uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI) è stata una novità soprattutto per noi occidentali, ma nei Paesi orientali è una prassi da moltissimo tempo. Non solo per proteggersi dallo smog o da eventuali patogeni circolanti, ma per il semplice rispetto verso gli altri. Anche la trasmissione di un banalissimo raffreddore è vista come un'imperdonabile mancanza di rispetto verso la comunità, per questo in Giappone le mascherine vengono utilizzate comunemente e prontamente. Forse è anche per questo che il virus, pur essendo essendo emerso proprio in Asia, ha fatto molti meno danni in Oriente che in Occidente. Da noi c'è sempre stato un atteggiamento diverso, come spiegato in un illuminante serie di “cinguettii” su Twitter dal professor Giorgio Gilestro, neurobiologo esperto di sonno e comportamento dell'Imperial College di Londra. “La società precovid aveva normalizzato i contatti umani con sintomi influenzali. Si andava lo stesso al lavoro, aiutati da un po' di paracetamolo se necessario. Per alcuni era una questione economica inevitabile, non una scelta personale. Per altri no”, ha sottolineato lo scienziato.

Nonostante la lezione impartita dalla pandemia, sembra che per alcuni questo “stacanovismo improduttivo, anzi controproducente” – come lo definisce Gilestro – faccia parte di una normalità che continuiamo a rimpiangere. Lo scienziato non si capacita del fatto che si viene additati negativamente se si continua a indossare la mascherina nonostante la decadenza degli obblighi (perlomeno nel Regno Unito), come se continuare a proteggere se stessi e le persone accanto in un momento in cui il SARS-CoV-2 è ancora presente sia un comportamento deprecabile.

“Stigmatizzare chi decide spontaneamente di portare una mascherina nei mesi invernali definendoli schiavi, beoti, o gregge diventa in quest'ottica un gesto molto poco intelligente”, chiosa Gilestro, sottolineando l'importanza di cogliere questa significativa opportunità – “un dovere morale” – legata all'esperienza della pandemia. Del resto i patogeni respiratori si avvantaggiano del freddo per ragioni comportamentali (si passa ad esempio più tempo al chiuso e ammassati) e fisiologiche. Anche se il patogeno pandemico dovesse sparire completamente, dimenticare la lezione di questi due anni su come difenderci (e difendere gli altri) da malattie infettive come l'influenza sarebbe una vera sconfitta per tutti. E, di certo, non ne saremmo usciti migliori.

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