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Alcuni vermi di Chernobyl sanno come resistere alle radiazioni: “Capacità utile nella lotta al cancro”

Le radiazioni rilasciate nel disastro di Chernobyl non hanno provocato alcun danno nel DNA di alcuni piccoli vermi che vivono nella zona d’esclusione, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe per gli animali che si trovano in un luogo così pericoloso. Per i ricercatori dietro la scoperta, questa eccezionale tolleranza potrà essere usata per studiare la nostra suscettibilità al cancro.
A cura di Valeria Aiello
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Vermi raccolti nella zona di esclusione di Chernobyl, visti al microscopio. Credit: Sophia Tintori/Università di New York
Vermi raccolti nella zona di esclusione di Chernobyl, visti al microscopio. Credit: Sophia Tintori/Università di New York

Alcuni piccoli vermi che si trovano nella zona di esclusione di Chernobyl sembrano non aver riportato alcun danno dovuto all’esposizione alle radiazioni. Sarebbero eccezionalmente resistenti, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare per gli animali che vivono in un luogo così pericoloso. Lo ha scoperto un team di ricerca guidato dai biologi dell’Università di New York che ha sequenziato i genomi di una specie di nematodi raccolta in aree ad alta e bassa radioattività intorno all’ex centrale nucleare, dimostrando che i vermi esposti ad alti livelli di radiazioni ionizzanti non hanno riportato mutazioni nel loro DNA. Eppure, negli ultimi anni, i ricercatori hanno rilevato che gli animali della zona di esclusione sono fisicamente e geneticamente diversi dalle loro controparti che si trovano altrove, sollevando interrogativi sull’impatto dell’esposizione cronica alle radiazioni.

Nel caso invece di questi piccoli vermi, appartenenti alla specie Oscheius tipulae, l’esposizione multigenerazionale a livelli estremamente pericolosi di radiazioni ionizzanti non ha prodotto segni di danni al DNA. Come dettagliato in uno studio, appena pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), i ricercatori hanno analizzato attentamente il genoma di questi vermi, confrontandolo con quelli di esemplari raccolti in altre parti del modo (Filippine, Germania, Stati Uniti, Mauritius e Australia) senza tuttavia trovare prove di mutazioni dovute alle radiazioni ambientali. Né c’era alcuna correlazione tra tassi di mutazione e intensità delle radiazioni rilevata nel luogo in cui è stato raccolto ogni verme.

I vermi di Chernobyl resistono alle radiazioni

Il disastro di Chernobyl nel 1986 trasformò l’area intorno all’ex centrale nucleare nel luogo più radioattivo della Terra. La zona circostante e la vicina città di Pripyat, in Ucraina, vennero evacuate e severamente interdette a chiunque (senza l’approvazione del Governo) ma piante e animali hanno continuato a vivere nella regione, nonostante gli alti livelli di radioattività che persistono da ormai quasi quattro decenni.

L’esposizione cronica a radiazioni ionizzanti ha aumentato notevolmente il rischio di mutazioni, cancro e morte nelle specie rimaste nella zona di esclusione, determinando la selezione anche di singoli individui all’interno di una stessa specie. Stranamente non ha però danneggiato il genoma di alcuni piccoli vermi, i nematodi della specie Oschieus tipulae.

Questi vermi si trovano ovunque, hanno genomi semplici e si riproducono rapidamente, quindi attraversano decine di generazioni di evoluzione rispetto a un tipico vertebratoha spiegato Matthew Rockman, professore di biologia dell’Università di New York e autore senior dello studio che, in collaborazione con gli scienziati ucraini e i colleghi statunitensi, tra cui il biologo Timothy Mousseau dell’Università della Carolina del Sud, ha visitato la zona di esclusione nel 2019, raccogliendo vermi da campioni di terreno, frutta marcia e altro materiale organico in aree con diversi livelli di radiazioni – da “bassi” (trascurabilmente radioattivi) ad alti (pericolosi per gli esseri umani).

Come indicato, le loro analisi si sono concentrate sulla specie Oscheius tipulae, ampiamente utilizzata anche in studi genetici ed evolutivi, e sul sequenziamento del genoma di 15 esemplari raccolti a Chernobyl, che hanno poi confrontato con i genomi di cinque O. tipulae provenienti da altre parti del mondo. “Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che, utilizzando diverse analisi, non siamo riusciti a rilevare alcuna traccia di danno da radiazioni nei genomi dei vermi di Chernobyl – dicono i ricercatori – . Ciò non significa che Chernobyl sia sicura, ma più probabilmente che i nematodi sono animali davvero resistenti e possono tollerare condizioni estreme”.

I ricercatori non sanno però per quanto tempo ciascuno dei vermi analizzati sia rimasto nella zona di esclusione, per cui non sono esattamente sicuri del livello di radiazioni a cui è stato esposto ciascun verme né di quanto lo siano stati i loro antenati negli ultimi quattro decenni. Chiedendosi però se la mancanza di danni nel DNA fosse dovuta al fatto che questi vermi fossero insolitamente capaci di proteggere o riparare il proprio materiale genetico, gli studiosi hanno condotto alcuni test sui discendenti di tutti i 20 vermi, esponendoli a diversi mutageni chimici in laboratorio. E sebbene ogni lignaggio avesse un diverso livello di tolleranza, questa resistenza non si è dimostrata maggiore nei discendenti dei vermi di Chernobyl.

Il team ha quindi potuto solo concludere che non esiste alcuna prova di un impatto genetico dovuto all’ambiente della zona di esclusione di Chernobyl sui genomi di O. tipulae, ottenendo tuttavia indizi su come la riparazione del DNA possa variare da individuo a individuo e – nonostante la semplicità e le differenze genetiche di O. tipulae con gli esseri umani – informazioni che potrebbero aiutare a capire perché alcune persone sono più suscettibili al cancro rispetto ad altre.

Ora che sappiamo quali ceppi di O. tipulae sono più sensibili o più tolleranti al danno al DNA, possiamo usare questi ceppi per studiare perché individui diversi hanno maggiori probabilità di altri di subire gli effetti degli agenti cancerogeni – ha aggiunto Sophia Tintori, associata post-dottorato presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di New York e autrice principale dello studio – . Pensare a come gli individui rispondono in modo diverso agli agenti dannosi per il DNA presenti nell’ambiente è qualcosa che ci aiuterà ad avere una visione chiara dei nostri fattori di rischio”.

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