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Giorgio Napolitano, il comunista presidente

Il Presidente è la rappresentazione più lampante del senso dello Stato, strettamente vincolato al credo delle libertà repubblicane, che ha guidato, sin dal secondo dopoguerra, l’azione di dirigenti e militanti del Pci. La Repubblica, con la fine del comunismo, è diventata l’alter ego del partito “che aveva sempre ragione” e Napolitano ne è stato il degno “segretario politico”.
A cura di Marcello Ravveduto
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Giorgio Napolitano è la sintesi di ciò che è stato il Pci in questo paese: una forza imperniata sulla lotta di classe ma profondamente democratica e influenzata da un profondo spirito liberale di marca crociana, seppure vincolata all’Unione Sovietica,

Per Napolitano vale la riflessione compiuta da Calvino nel racconto “La giornata d’uno scrutatore” in cui la doppiezza togliattiana diventa materia di introspezione psicologica. Il protagonista vive una sospensione tra il relativismo flessibile di una circostante natura imperfetta e la rigidità del pensiero razionale marxista che corrisponde «a un’abitudine tattica del suo partito, prontamente assimilata da lui, perché gli serviva da corazza psicologica, per dominare gli ambienti estranei e ostili». L’impatto con la “materia umana” dell’ospizio (è scrutatore al Cottolengo di Torino) lo costringe a prendere coscienza dello «sdegno aristocratico» comunista che ha bisogno «di sentirsi superiore, capace di pensare tutto il pensabile, anche i pensieri degli avversari, capace di comporre la sintesi, di scorgere dovunque i disegni della Storia, come dovrebb’essere prerogativa del vero spirito liberale».

Un modo di pensare indotto dalla dottrina del Pci che «s’era assunto, tra i molti altri compiti, anche quello, d’un ideale, mai esistito, partito liberale. E così il petto d’un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente e un liberale olimpico. Più il comunismo mondiale s’era fatto, in quei tempi duri, schematico e senza sfumature nelle sue espressioni ufficiali e collettive, più accadeva che, nel petto d’un singolo militante, quel che il comunista perdeva di ricchezza interiore uniformandosi al compatto blocco di ghisa, il liberale acquistasse in sfaccettature e iridescenze. Forse era segno che la vera natura di Amerigo – e di molti come lui – sarebbe stata, se lasciata a se stessa, quella del liberale, e che solo per un processo d’identificazione – appunto – col diverso egli poteva essere definito un comunista? Domandarselo voleva dire per Amerigo chiedersi cos’era l’essenza di un’identità individuale… al di fuori delle condizioni esterne che la determinavano».

Napolitano rappresenta il tentativo del Pci di sanare un vulnus mai colmato nella storia del paese: l’assenza di un partito liberale di massa di carattere progressista; o per meglio dire progressista in senso politico e sociale e conservatore nei confronti dei valori morali universali.

Il credo della libertà è alla base di questo agire profondamente legato alla difesa dei diritti costituzionali. Il motivo è facilmente intuibile: l’aver contribuito alla scrittura della Costituzione ha concesso ai comunisti un riconoscimento e una credibilità istituzionale che ha travalicato l’ideologia del partito e la smania, sempre meno presente, della rivoluzione proletaria. Un riconoscimento e una credibilità che si sono sedimentati nei comportamenti collettivi di militanti e dirigenti divenendo punto di riferimento etico, insostituibile, con la fine del comunismo: ciò che era stato il partito, strumento infallibile e autorevole, è diventato lo Stato.

La Costituzione, in assenza dell’ideologia, è il soggetto assorbente dentro al quale si conquista visibilità istituzionale prima ancora che politica. Un processo di identificazione con lo Stato che ha posto la salvaguardia della Repubblica davanti a tutto, anche quando significava deludere le aspettative di cambiamento imposte dalla crescita elettorale comunista negli anni Settanta.

Questo è stato possibile perché la complessità comunista, pienamente riverberata dalla complessità della figura di Napolitano, è un intreccio tra il popolo dei lavoratori disciplinati e gli intellettuali borghesi ideologicamente rivoluzionari ma praticamente riformisti.

Se guardiamo alla storia politica del Capo dello Stato non possiamo non considerare che il suo essere riformista e gradualista derivi dalla consapevolezza di tenere sempre in equilibrio avanzamenti sociali e sviluppo economico senza determinare stravolgimenti civili nel corpo della nazione.

Così il Pci, grazie all’azione di dirigenti dall’ampio respiro internazionale, qual è Napolitano che all’inizio degli anni Settanta aveva conteso la segreteria del partito a Berlinguer (e, dunque, nell’immaginario comunista italiano è il principe ereditario), diviene di fatto un grande partito socialdemocratico europeo.

Del resto l’europeismo è l’altro pilastro di trasformazione democratica del Pci, non solo con l’intuizione dell’eurocomunismo (diversità comunista ma piena adesione ai valori occidentali) ma anche con la canditura di Altiero Spinelli, come indipendente nella lista comunista, alle prime elezioni del Parlamento europeo (1979).

Nel 2006 il lungo cammino teso al riconoscimento e alla credibilità istituzionale degli ormai ex comunisti ha il suo compimento con l’elezione di Napolitano a Presidente della Repubblica. Il discorso di insediamento, del 10 maggio 2006, è la summa di una maturazione politica che gli consente di esprimere con naturalezza l’obiettivo di voler conquistare la fiducia di tutti gli italiani come istituzione guida dell’identità repubblicana.

Da Prodi a Berlusconi, a Monti, passando per Letta e finendo con Renzi, Napolitano ha navigato con abilità promuovendo un nuovo ruolo del Presidente che non si pone più come super partes ma quale nocchiero dei processi istituzionali in momento in cui la politica ha perso di autorevolezza. Un capo dello Stato che fa valere con forza il principio di sussidiarietà con interventi di stimolo e di freno a seconda delle fasi e delle stagioni di governo.

In questo permane il dirigente comunista che ha sostituito lo Stato al partito. La Repubblica, come una volta il Pci, “ha sempre ragione” e il suo Presidente, così come il Segretario generale, non può sbagliare, nè essere messo in discussione per le scelte compiute. È con questa sicumera che ha gestito il passaggio da Berlusconi a Monti, dopo aver conquistato il credito dei partner europei per i quali è, lui e non i vari Presidenti del Consiglio, l’unico italiano affidabile.

Ovvero Napolitano si è comportato come un presidente con un mandato esecutivo. Nel codice genetico della sua storia lo Stato è il perno dell’azione politica che ha sempre una faccia pubblica e una faccia segreta (una riedizione in chiave istituzionale della doppiezza ideologica in cui è cresciuto): un moderato progressista di fronte al popolo e un cinico esecutore della ragion di Stato nelle stanze del Quirinale. L’istituzione più alta, ma anche più insipiente, della Repubblica è diventata l’interlocutrice fondamentale non solo della sempre più impotente partitocrazia ma anche delle forze sociali, economiche e civili rimaste senza punti di riferimento sostanziali.

Insomma Giorgio più che Re, come è stato spesso ironizzato, è stato il “segretario politico” della Repubblica. Basta riascoltare i messaggi di fine anno per rendersi conto delle prospettive programmatiche inserite nei suoi discorsi. Ciò è evidente, a mio avviso, soprattutto nel messaggio del 31 dicembre 2012 (quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo del suo settennato).

Seppure chiarisca in premessa: «non verranno da me giudizi e orientamenti di parte, e neppure programmi per il governo del paese», declama il possibile programma della sinistra italiana (ancora la doppiezza: mentre dice di non voler fare politica, indica un percorso da seguire). Il messaggio è chiaro: bisogna colmare il divario tra ricchi, sempre più ricchi, e le famiglie povere in cui convivono più generazioni.

Il richiamo al Mezzogiorno, poi, è un vero e proprio monito: «far ripartire l'economia e l'occupazione non solo nel Centro-Nord ma anche nel Mezzogiorno; cosa – quest'ultima – di cui poco ci si fa carico e perfino poco si parla nei confronti e negl'impegni per il governo del paese». Poi passa alla “questione sociale”: «situazioni gravi di persone e di famiglie, che bisogna sentire nel profondo della nostra coscienza… Ciò non significa… ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire – oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale – per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale… entro questi limiti si può agire per affrontare le situazioni sociali più gravi… distribuendo meglio, subito, i pesi dello sforzo di risanamento…, definendo in modo meno indiscriminato e automatico sia gli inasprimenti fiscali sia i tagli alla spesa pubblica, che va… liberata da sprechi e razionalizzata».

Ecco qual è il programma che Napolitano traccia e lascia ai suoi compagni: guardare agli ultimi, ridare fiato alla classe media con una tassazione equanime, riformare la pubblica amministrazione, perseguire gli evasori fiscali. Lo «sviluppo economico non può eludere il problema del crescere delle diseguaglianze sociali. Si riconosce ormai… che esso è divenuto fattore di crisi e ostacolo alla crescita proprio nelle economie avanzate. Porre in primo piano quel problema diventa sempre più decisivo».

È il “Manifesto” di una sinistra moderna, aperta al contributo polemico delle nuove generazioni, che ha il dovere di affrontare la crisi economica senza comprimere i diritti civili. Una sinistra solidale in grado di avere cura dei soggetti più deboli, di accogliere immigrati e profughi, di lottare contro la criminalità organizzata, facendo leva sull'apporto della società civile, di adeguare il diritto di famiglia, di opporsi alla violenza contro le donne, di valorizzare il patrimonio naturale ed artistico, di restituire dignità al capitale umano di cui disponiamo (ovvero frenare l’emigrazione dei cervelli rafforzando la ricerca scientifica e le conseguenti applicazioni tecnologiche). Insomma una sinistra che assuma l’impegno di rendere l'Italia protagonista di un futuro di «integrazione e democrazia federale» nel concerto dell'Unione europea.

Bersani all’epoca non ci è riuscito, ci riuscirà Renzi oggi?

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