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Torturavano migliaia di schiavi digitali: 11 membri del clan mafioso Ming condannati a morte in Cina

Un tribunale cinese ha condannato a morte undici membri della famiglia Ming, che gestiva centri di truffa online in Myanmar. Dal 2015 il clan controllava Laukkai, generando 1,4 miliardi di dollari con frodi telematiche, casinò illegali e traffico di droga. Migliaia di persone venivano tenute prigioniere e costrette a truffare vittime in tutto il mondo.
A cura di Davide Falcioni
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La giustizia cinese ha emesso un verdetto senza precedenti contro la famiglia mafiosa Ming, condannando a morte undici membri del clan che per anni ha orchestrato un vasto impero criminale al confine con il Myanmar. La sentenza, pronunciata oggi dal tribunale della città orientale di Wenzhou, coinvolge complessivamente 39 componenti segnando uno dei più duri colpi inferti dalla Cina al fenomeno delle truffe online transfrontaliere.

Oltre alle undici esecuzioni capitali, il tribunale ha disposto altre cinque condanne a morte con sospensione biennale – una formula che in Cina può trasformarsi in ergastolo in caso di buona condotta – undici ergastoli e pene detentive fino a 24 anni per i restanti imputati.

L'impero criminale dei Ming

La famiglia Ming rappresentava uno dei quattro potenti clan che hanno trasformato Laukkai, piccola cittadina dello Stato Shan nel Myanmar settentrionale, in un fiorente centro per attività illecite. Dal 2015, secondo le ricostruzioni processuali, il gruppo ha gestito un'organizzazione criminale tentacolare dedita a frodi telematiche, casinò clandestini, traffico di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione.

I numeri emersi nel corso del processo sono impressionanti: le sole attività di gioco d'azzardo e truffa avrebbero generato profitti superiori ai 10 miliardi di yuan, circa 1,4 miliardi di dollari. Ma dietro le cifre si nasconde una realtà ancora più cupa: i Ming gestivano veri e propri lager dove migliaia di persone – si parla di almeno diecimila lavoratori – venivano tenute prigioniere e costrette a perpetrare sofisticate frodi online ai danni di vittime in tutto il mondo.

Il complesso più tristemente noto era Crouching Tiger Villa, dove torture e pestaggi erano all'ordine del giorno. In almeno un'occasione, il tribunale ha accertato che membri del clan hanno sparato ad alcuni lavoratori per impedire loro di fuggire e tornare in Cina. L'Organizzazione delle Nazioni Unite ha definito questo fenomeno "scamdemic", stimando che oltre 100mila persone, prevalentemente cittadini cinesi, siano state attirate con l'inganno in questi centri.

L'ascesa della famiglia Ming si è conclusa bruscamente due anni fa, quando un'alleanza di gruppi insorgenti ha lanciato un'offensiva che ha cacciato l'esercito birmano da ampie porzioni dello Stato Shan, conquistando Laukkai. Pechino, che esercita considerevole influenza su questi movimenti, avrebbe dato tacito assenso all'operazione militare.

Nel 2023, le autorità del Myanmar hanno arrestato numerosi membri dei quattro clan e li hanno estradati in Cina. Ming Xuechang, il patriarca della famiglia, si sarebbe tolto la vita. Altri familiari hanno rilasciato confessioni pubbliche esprimendo pentimento, mentre migliaia di lavoratori dei centri di truffa sono stati rimpatriati e consegnati alla polizia cinese.

La pena di morte in Cina: tolleranza zero contro il crimine organizzato transfrontaliero

La severità delle sentenze riflette la strategia di tolleranza zero adottata da Pechino contro il crimine organizzato transfrontaliero. La Cina mantiene uno dei più alti tassi di esecuzioni al mondo, sebbene i dati ufficiali siano classificati come segreto di stato. Secondo Amnesty International, il paese applica la pena di morte per decine di reati, dai crimini violenti alla corruzione, dal traffico di droga ai reati economici di particolare gravità.

Le condanne capitali vengono generalmente eseguite tramite iniezione letale o, più raramente, mediante fucilazione. Il sistema prevede anche la possibilità della sospensione biennale, che nella pratica consente una revisione della pena qualora il condannato dimostri "sincero pentimento" durante il periodo di detenzione.

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