“Quello di Gaza è un genocidio: lo dice il diritto internazionale, a prescindere dalle opinioni”: spiega la docente

"Il genocidio non è un’opinione", dice a Fanpage.it Micaela Frulli, docente di diritto internazionale all'Università di Firenze che è da poco rientrata da Rafah, la città palestinese al confine con l'Egitto. "È una categoria giuridica definita con chiarezza dalla Convenzione del 1948". E ciò che sta accadendo a Gaza "sembra concretizzarne i presupposti": le condotte ci sono tutte, così come l’intento.
La parte che vale il tutto
Si tratta di chiamar le cose con il loro nome: "La distruzione anche parziale di un gruppo nazionale è sufficiente perché si possa parlare di genocidio", spiega la giurista. Non importa, se nel mirino ci sono solo i palestinesi di Gaza e non tutto il popolo palestinese. È successo qualcosa di simile anche in passato: "A Srebrenica i soldati di Mladic uccisero solo gli uomini. Eppure quel massacro fu riconosciuto come genocidio", ricorda l’esperta.
Era il luglio del 1995. Le unità militari della Republika Srpska a Srebrenica mica pensavano di ammazzare tutti i musulmani di Bosnia, no. Si limitarono – diciamo così – a trucidare 8.000 tra ragazzi e cittadini maschi di quella cittadina e dei dintorni. Il parallelo con Gaza, dove vive e muore solo una parte del popolo palestinese, è quasi ovvio. E a Gaza muoiono anche donne e bambini.
Per il massacro di Srebrenica, il Meccanismo residuale per i Tribunali Penali Internazionali (Mict), che ha sostituito il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, ha condannato definitivamente all’ergastolo il generale Ratko Mladić e il suo capo, l’allora presidente della Republika Srpska Radovan Karadžić.
La Convenzione descrive Gaza
L’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948) elenca gli atti genocidari. I primi quattro sono: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottoposizione deliberata a condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti ad impedire nascite. A Gaza, "queste condotte sembrano essersi concretizzate", osserva la professoressa Frulli.
Secondo lo stesso articolo, ciascuno dei comportamenti descritti è un atto genocidario quando ci sia l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Anche qui, condizione realizzata, fino a prova contraria: "L’intento esplicito di annientare un gruppo nazionale è stato dichiarato da esponenti di vertice del governo israeliano", argomenta Micaela Frulli. Il riferimento è alle dichiarazioni pubbliche in cui ministri del governo Netanyahu e generali delle forze armate di Israele hanno definito "animali" i palestinesi, e auspicato una loro “distruzione totale”.
Gli obblighi per i Paesi terzi (noi)
Per il diritto internazionale, le responsabilità non sono limitate ai governanti del Paese che compie un genocidio. "C’è una responsabilità giuridica – concreta – anche per i Paesi terzi che non fanno nulla per prevenirlo", sottolinea l’accademica. Infatti, l'obbligo generale di prevenire il genocidio – anche quando viene commesso da altri Stati – "vale per tutti i firmatari della Convenzione".
Obbligo rafforzato dalla risoluzione R2P dell’Assemblea delle Nazioni Unite (2005) e ribadito dalla giurisprudenza. In sostanza, per il diritto internazionale gli Stati terzi non possono rimanere inerti quando si verifica un rischio di genocidio, ma devono adottare misure per prevenire il crimine o reprimere gli autori. Devono almeno provarci.
La Corte dell’Aja (Cig), il più importante organo giudiziario dell’Onu, ha inoltre fatto chiarezza sul rapporto tra la responsabilità dello Stato e la responsabilità dell’individuo per atti di genocidio, stabilendo che uno Stato può essere ritenuto responsabile in relazione a condotte ad esso imputabili, anche se le persone responsabili del genocidio non sono cittadini dello Stato.
Almeno proviamoci
La Cig ha precisato che se gli Stati terzi agiscono diligentemente, secondo le loro possibilità politiche e considerando anche la distanza geografica, per impedire a un Paese di commettere il delitto di genocidio, non incorrono in responsabilità internazionale. Quindi, l'obbligo di prevenzione vale in modo diverso caso per caso, anche se riguarda tutti i contraenti della Convenzione. E a volte, la Corte è andata anche oltre i firmatari, parlando di obbligo erga omnes. Ovvero, per tutta la comunità internazionale.
Certo che se anziché sanzionare Israele si continua a fornirgli armi e a implementare accordi commerciali, si rischia – nel caso in cui il genocidio a Gaza venga dimostrato – di diventare corresponsabili. "Più stretti sono i legami con lo Stato che commette il genocidio, maggiore è la tua responsabilità nel prevenirlo", si limita a dire Frulli.
Chiamare le cose col loro nome
Se le si obietta che non si può usare la parola genocidio quando non ci sono ancora sentenze internazionali di condanna per chi l’ha commesso, la risposta della giurista è netta: "La legge definisce il crimine, non il tribunale. Anche in assenza di giudizio, un genocidio resta tale se ci sono gli elementi". Altrimenti sarebbe come dire che un omicidio non è tale se l’assassino scappa e non viene processato.
Esistono rapporti delle Nazioni Unite, di Amnesty e di altre organizzazioni umanitarie che documentano in modo sistematico i crimini in atto. "Se mai si arriverà a una sentenza, ci vorranno anni", riconosce Micaela Frulli. Ma questo non significa che non si debba parlar di genocidio quando si parla di cosa sta succedendo a Gaza.
Sfida alla Corte
Dopo l’ordinanza della Cig che imponeva misure per prevenire il genocidio, la situazione a Gaza è semmai peggiorata: fame, assedio totale, blocchi degli aiuti. I report che Israele è tenuto a inviare alla Corte sono segreti. Ma i fatti parlano chiaro. E questo peserà, quando si arriverà a una sentenza definitiva.
L’accademica fiorentina è da poco rientrata da Rafah, il valico egiziano per Gaza. Faceva parte di una delegazione di politici, giornalisti, giuristi ed esponenti della società civile. Ha potuto constatare il blocco degli aiuti umanitari, che marciscono negli autocarri. E ha parlato con le persone fuoriuscite dalla Striscia. "In realtà, i palestinesi lanciano un appello molto semplice", afferma. "È un appello che richiama l’intero sistema giuridico internazionale alle sue responsabilità. E che interroga l’Europa e l’Occidente".
È indicativo che siano sopratutto Paesi del Sud globale a promuovere azioni davanti alle corti internazionali. "È la prova che questi strumenti giuridici vengono ancora visti come risorsa dai Paesi che non detengono una forza militare significativa".
“Il diritto serve e le parole contano”
Dobbiamo guardare in faccia la realtà, contestiamo all’accademica: al diritto internazionale nessuno dà più peso. I casi di Mosca – con l’invasione dell’Ucraina e altro – e di Israele sono eclatanti. Ma possiamo parlare anche di Washington, con Donald Trump che sanziona i giudici della Corte penale internazionale. E dell'Italia, che ha rilasciato e riaccompagnato in patria su un comodo Falcon dei servizi il libico Osama Almasri, inutilmente colpito da un mandato di arresto della Cpi.
"Non è vero che il diritto internazionale non serve a nulla", si arrabbia la professoressa. "È un gigantesco equivoco. Anche se non sempre ottiene giustizia, limita gli abusi, organizza la convivenza. Senza diritto internazionale non potremmo nemmeno usare il telefono o volare su un aereo. La Convenzione sul Genocidio fa parte della costruzione giuridica che ha seguito la Seconda guerra mondiale, sulle ceneri di milioni di morti. Per dire ‘mai più'. Il diritto va difeso". Il fatto che non riesca a fermare un genocidio – già in atto o in divenire – non toglie valore allo strumento. Solo, richiede che venga utilizzato.
"Molti governi evitano la parola genocidio perché temono le conseguenze. Successe la stessa cosa per il Ruanda" (dove nel 1994 furono uccise tra 500 mila e un milione di persone, ndr), ricorda Micaela Frulli. "Ma non usare la parola non salva nessuno. Invece, il diritto può salvare". E Gaza rischia di esserne la tomba.