
Sabato a Roma si svolgerà il secondo round negoziale sul programma nucleare tra Stati Uniti e Iran dopo i colloqui della scorsa settimana a Muscat in Oman, definiti “positivi e costruttivi” dai mediatori. La vigilia dei negoziati è quanto mai incandescente e ricca di incognite. Da una parte, il New York Times ha rivelato che il presidente Usa, Donald Trump, avrebbe sospeso un piano israeliano di attacco contro i siti nucleari iraniani, con la partecipazione di Washington, proprio per permettere al negoziato con l’Iran di andare avanti. Dall’altra, il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, ha avvisato che Teheran è “molto vicina” a realizzare un’arma nucleare. E proprio evitare che Teheran possa esercitare una minaccia atomica in una regione già segnata da guerre e instabilità è lo scopo principale dei colloqui in corso che potrebbero permettere alle autorità iraniane di mantenere il loro programma nucleare ma solo a scopo civile.
Colloqui indiretti per evitare un attacco diretto
Le autorità iraniane non vogliono che si parli di colloqui diretti con gli Stati Uniti. Sebbene a Muscat ci sia stato un breve faccia a faccia tra il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, e l’inviato speciale del presidente Usa, Steve Witkoff, sono state prevalentemente le autorità omanite a mediare tra le parti.
E così sarà anche a Roma dove i colloqui, il cui avvio ha colto di sorpresa lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu in visita alla Casa Bianca al momento dell’annuncio lo scorso 7 aprile, dovrebbero svolgersi proprio nella rappresentanza diplomatica di Muscat a Roma. Lo scopo del negoziato sarebbe di riportare in vita e superare l’accordo raggiunto a Vienna nel 2015, voluto da Barack Obama, tra Teheran e i paesi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la Germania (P5+1).
Il principale obiettivo iraniano è la sopravvivenza della Repubblica islamica, indebolita all’interno dalla crisi economica e dal movimento “Donna, vita, libertà”, e all’esterno dal ridimensionamento dei principali alleati regionali di Teheran: da Hamas a Gaza, al movimento sciita libanese Hezbollah in Libano, fino alla fine del regime di Bashar al-Assad in Siria, lo scorso 8 dicembre. Tuttavia, in seguito agli attacchi diretti tra Teheran e Tel Aviv dell’aprile e dell’ottobre 2024, lo scontro tra i due paesi, con il coinvolgimento più o meno diretto di Washington, continua a rimanere dietro l’angolo.
Eppure, è difficile che l’esercito israeliano (Idf) voglia lanciarsi in un attacco ad ampio raggio contro l’Iran, senza il pieno appoggio di Washington che servirebbe a contenere la possibile reazione iraniana, ma anche gli attacchi degli Houthi dallo Yemen e le eventuali risposte dagli altri fronti aperti di guerra. E così se Trump ha assicurato, in questa fase, di non volere la guerra con l’Iran, è sempre pronto a quell’attacco contro gli ayatollah di cui i Repubblicani parlano da anni. Se questo dovesse accadere, Teheran a sua volta sarebbe pronta a fermare le ispezioni delle Nazioni Unite alle sue centrali nucleari e a riprendere l’arricchimento dell’uranio.
Tutti pronti a mediare, con qualche eccezione
In queste ore, l’attività negoziale è frenetica. Se Donald Trump ha telefonato al sultano omanita Haitham bin Tariq, il ministro degli Esteri iraniano ha parlato con il suo omologo turco, Hakan Fidan, prima di volare a Mosca, mentre è in corso la visita di più alto livello diplomatico in Iran da anni da parte del
principe saudita e ministro della Difesa, Khalid bin Salman al-Saud. Al centro dei colloqui e degli sforzi diplomatici di questi giorni c’è sempre il tema del nucleare iraniano. La questione delle forniture di droni Shahed di Teheran alla Russia aveva ostacolato non poco le intenzioni di intavolare in passato un accordo con Teheran da parte dell’ex presidente Usa, Joe Biden.
Questa volta invece l’idea di strappare a Teheran un accordo storico, ma in salita, che riporti al dialogo tra Stati Uniti e Iran, dopo anni di tensioni, sta dividendo non poco l’entourage di Trump. Da una parte, a volere una difficile intesa ci sarebbero l’inviato del presidente Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e il vicepresidente, J.D. Vance. Dall’altra, a difendere le posizioni contrarie a qualsiasi intesa, avanzate da Israele, ci sarebbero il segretario di Stato, Marco Rubio, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Mike Waltz.
Le stesse divisioni tra falchi e colombe spaccano anche le autorità iraniane. Il primo a essere scettico rispetto a qualsiasi intesa con Washington è proprio la guida suprema, Ali Khamenei, che alla vigilia dei colloqui ha avvisato di diffidare dal “bullo” Trump. I conservatori iraniani non perdoneranno mai al presidente Usa di aver dato il disco verde all’uccisione mirata a Baghdad nel 2020 dell’allora guida delle milizie al-Quds, Qassem Soleimani.
Molto più possibilista è invece il presidente moderato iraniano, Masoud Pezeshkian, eletto lo scorso anno dopo la morte in un incidente aereo del suo predecessore, Ibrahim Raisi. Non solo, proprio alla vigilia del secondo round negoziale, Pezeshkian ha formalizzato le dimissioni, già presentate a marzo, di uno dei protagonisti dei colloqui che nel 2015 portarono all’accordo di Vienna, uno dei suoi vicepresidenti ed ex capo-negoziatore per il nucleare, Javad Zarif.
Un ruolo italiano?
Non appena è arrivato l’annuncio che il secondo round negoziale si sarebbe svolto sabato a Roma, dove si troverà anche il vicepresidente Vance per incontrare la premier italiana, Giorgia Meloni, di ritorno dagli Stati Uniti, sono arrivate le prime smentite iraniane. Anche se la sede negoziale è stata poi confermata, non è chiaro se questo comporterà un rinnovato ruolo di mediazione per l’Italia.
Sin dai primi round negoziali del 2003, l’Italia è stata esclusa, o si è auto-esclusa, dai colloqui. In quella fase, Roma era tra i principali partner commerciali iraniani e voleva evitare tensioni con quello che un tempo era il primo partner commerciale, con Berlino, per Teheran in Europa. Quando nel 2003 Francia, Germania e Gran Bretagna (E-3) hanno aperto i colloqui negoziali con l’Iran, l’Italia era presidente di turno del Consiglio europeo. In quel momento, i tre paesi Ue hanno avviato dei contatti con le autorità iraniane per fermare il programma nucleare e per raggiungere un’intesa che evitasse raid diretti contro Teheran.
Secondo fonti diplomatiche, già in quella fase, gli iraniani hanno chiesto ad altri paesi, tra cui l’Italia, di entrare a far parte del gruppo di contatto. Nonostante ciò, Roma nell’ottobre del 2003 non è entrata nel negoziato per il nucleare. In quel momento, l’evoluzione dei colloqui appariva difficile da prevedere. Da una parte, la leadership iraniana sembrava infastidita dai modi con cui la questione era stata sollevata, dall’altra, le possibili iniziative degli Stati Uniti apparivano ancora incerte.
Per esempio, i colloqui del gruppo di contatto E-3 non avevano ancora il sostegno dell’amministrazione Usa, e neppure di tutti i paesi europei. Questo indeboliva in modo rilevante la credibilità dei negoziatori agli occhi delle controparti iraniane.
Tra distensione e contrapposizione
Soltanto nel 2005 gli E-3 hanno ottenuto l’avallo dell’Ue e l’appoggio degli Stati Uniti. Tuttavia, pochi mesi dopo, nell’agosto 2005, l’Iran ha ripreso l’arricchimento dell’uranio in alcuni suoi impianti. In quel momento, si apriva una nuova fase nella politica iraniana con il fallimento del movimento riformista dell’ex presidente Mohammad Khatami e l’inasprimento delle posizioni radicali con l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad. La questione nucleare era divenuta sempre più un tema che cementava la coesione interna al regime.
È proprio nell’autunno del 2005, nel momento in cui il negoziato appariva compromesso e l’iniziativa europea priva di seguito, che la diplomazia italiana ha condotto nuovi colloqui nell’ambasciata italiana a Teheran. In quella fase, le autorità iraniane facevano pressioni sui paesi non presenti ufficialmente nel negoziato perché presentassero proprie proposte. Eppure, quando a più riprese i governi Berlusconi e Prodi, con l’allora ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, hanno tentato di rientrare nel tavolo negoziale, per evitare il contraccolpo economico delle sanzioni all’Iran, insieme a Germania, Francia e Gran Bretagna, per Roma è sembrato ormai troppo tardi. E così fin qui l’Italia è rimasta a guardare le diplomazie europee progredire o abbandonare i negoziati. Eppure, anche Roma ha avuto dei vantaggi in termini di investimenti e commerciali in seguito alle brevi aperture del mercato iraniano dopo l’intesa del 2015 e fino all’uscita unilaterale dall’accordo da parte di Trump nel 2018.
Le questioni aperte
Se chi è contrario a un’intesa verrebbe negare completamente la possibilità che l’Iran abbia un programma nucleare, anche se a scopo civile, i mediatori vorrebbero riproporre uno dei punti chiave dell’intesa del 2015. In questo caso l’Iran potrebbe continuare con l’arricchimento dell’uranio ad un livello massimo del 3,67% e sotto la stretta supervisione dell’Aiea. La proposta per un’intesa prevede poi che Teheran accetti di trasferire tutte le riserve di uranio altamente arricchito in suo possesso in Russia. Questo punto non trova l’accordo iraniano.
Gli ayatollah vorrebbero invece che le scorte di uranio restassero in territorio iraniano, anche in vista di possibili ripensamenti statunitensi unilaterali rispetto ad un’eventuale intesa che dovesse essere raggiunta, come è avvenuto nel 2018. Non solo, le autorità iraniane hanno sempre visto con scetticismo, nonostante gli intensi rapporti bilaterali con Mosca, Vladimir Putin e le autorità russe, a loro volta coinvolte nel difficile negoziato per arrivare a un cessate il fuoco nella guerra in Ucraina, proprio in seguito all’insediamento di Trump. Teheran da anni guarda invece con molto più interesse verso Pechino. La Cina ha fin qui pagato a duro prezzo, con rinnovate sanzioni internazionali, il suo sostegno alle esportazioni di petrolio iraniano, nonostante l’inasprimento delle misure contro Teheran, volute da Trump nei mesi scorsi.
I livelli di arricchimento dell’uranio, le ispezioni delle Nazioni Unite nei siti nucleari del paese e il tema delle scorte accumulate di uranio arricchito restano i nodi centrali da sciogliere per arrivare a una difficile intesa sul nucleare iraniano. Se la possibilità di un accordo tra Iran e Stati Uniti spacca i politici di Washington e di Teheran, vedremo fino a che punto i paesi europei, a partire dall’Italia dove si svolgerà il secondo round negoziale, sapranno ritagliarsi un ruolo per arrivare a una difficile intesa.
Eppure, molti altri temi restano dietro le quinte della questione del nucleare iraniano, prima di tutto l’assenza di fiducia reciproca tra Washington e Teheran, dopo decenni di gelo diplomatico. E poi non devono essere sottovalutati gli interessi israeliani divergenti rispetto a quelli di Teheran, incluso il ruolo geopolitico regionale dell’Iran che Tel Aviv vorrebbe contenere con ogni mezzo, mentre non è detto che questa sia una priorità per Washington.
