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Elezioni USA 2024

Perché per capire cosa farà Trump negli Usa bisogna guardare a cosa sta facendo Milei in Argentina

L’intervista al sociologo argentino Ignacio Ramírez: parliamo con lui della vittoria di Trump alle elezioni americane e delle analogie con la vittoria di Milei in Argentina, della crisi della democrazia, della polarizzazione politica e dell’estrema destra internazionale.
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Ignacio Ramírez è un sociologo argentino dell’Università di Buenos Aires e DEA di Cultura, Politica e Comunicazione nell’Università di Madrid. Direttore di Master in Opinione Pubblica del FLACSO, docente, analista e consulente politico, è autore del libro “Polarizados”. Parliamo con lui della vittoria di Trump alle elezioni americane e delle analogie con la vittoria di Milei in Argentina, della crisi della democrazia, della polarizzazione politica e del movimento dell’estrema destra internazionale che si avvale di una narrazione costruita sulla paura e infarcita di fakes.

Trump ha vinto le elezioni confermando la svolta politica a destra nel mondo e l’accettazione di una politica di insulti e fakes: quanto somiglia la sua vittoria a quella di Milei?

La vittoria di Milei fu un fatto inedito con un carattere che fece entrare il paese in una zona sconosciuta. Il suo era il trionfo di un outsider, un leader senza alcuna esperienza di governo, di gestione che arrivava al potere percorrendo un cammino molto atipico. Perché normalmente, come nel caso di Trump o di Berlusconi, l’outsider è qualcuno che ha raggiunto la notorietà in un altro campo e trasferisce quel prestigio alle istituzioni e agli affari pubblici. Nel caso di Milei questo non succede, lui è un outsider amatoriale. E, a differenza di Trump che ha dovuto inserirsi nel vecchio partito repubblicano, Milei viene dall’esterno della costellazione dei partiti correnti, un sistema che sembrava godere di buona salute in Argentina, stabilizzato attorno alla rivalità tra peronismo-kirchnerismo e la coalizione di Mauricio Macri. Questo sistema si è dissolto con l’irruzione di Milei. La sua irruzione produsse tanta perplessità per questo, ma anche per il linguaggio usato. Il primo trionfo di Trump ha inaugurato un’epoca che questo secondo trionfo ratifica. Il primo Trump era una sfida nei confronti della razionalità politica, com’è accaduto ora con la vittoria di Milei. Perché Milei in campagna utilizzò una retorica politica del tutto ignota nella concorrenza politica argentina, attraverso l’insulto come parte centrale, l’uso dell’esagerazione, l’assoluta indifferenza per la verità, una belligeranza che trasgrediva tutti i consensi politici realizzati in democrazia. E una disinibizione ideologica che sembrava incompatibile con il trionfo: che in Argentina potesse vincere qualcuno che qualificava la giustizia sociale come un’aberrazione sembrava impensabile. Il trionfo di Milei, il trionfo di Trump rendono visibili le trasformazioni più sotterranee e silenziose della società con una degradazione della cultura politica democratica. Si parla molto dei rischi per la democrazia: credo che la democrazia come sistema sopravviverà, ma la democrazia come cultura politica è in disfacimento.

Si dice che l’attuale riorganizzazione del capitalismo così violenta abbia bisogno di sistemi autoritari. L’ondata di estrema destra che attraversa il mondo non mette a rischio la democrazia liberale?

Questo significa dire che si è rotto il matrimonio di convenienza tra capitalismo e democrazia. Ma quello che voglio affermare qui è che in Argentina e negli Stati Uniti, la democrazia intesa come sistema istituzionale non sembra correre pericolo; invece la cultura politica democratica, come quell’insieme di sensibilità, passioni, valori, comportamenti dei cittadini di tolleranza e pluralismo, l’eguaglianza di base, ecco tutto questo è andato molto indietro. Le narrazioni di questi leader sono molto contagiose e contemporanee e mettono in tensione la democrazia. D’altra parte, la vittoria di Milei va letta in chiave globale. Milei è la traduzione nazionale di un fatto globale, questo fatto globale è la polarizzazione. La concorrenza politica che si realizzava nella conquista del centro con strategie di moderazione è saltata per aria, i discorsi di centro hanno perso di significato, di rappresentanza, e non parlo solo a livello elettorale ma anche di quello che succede nella società.

Questo non si deve anche al fatto che la classe media si è molto ristretta nei paesi per la polarizzazione dei redditi e le diseguaglianze sociali?

Trump è causa e conseguenza di questa polarizzazione, così Milei. Sono espressione di questo fenomeno ma anche i loro promotori. Trump e Milei esprimono la furia sociale, la rappresentano e al contempo la gestiscono. Ossia che non solo esprimono queste combustioni collettive psicologiche ma le incubano anche, adoperandosi perché la politica si basi sullo sfruttamento di queste emozioni accompagnate da condizioni sociali molto deteriorate e di assenza di prospettiva. Ma eviterei spiegazioni puramente economiche, Trump vince in un’economia statunitense in crescita.

Con un’inflazione elevata, però, che pesa sulle tasche della gente.

Bisogna avere attenzione alle spiegazioni puramente economiche perché questi leader appaiono in contesti economici molto diversi, negli Stati Uniti in un momento di piena occupazione, in Argentina in una fase di recessione. Perciò è difficile spiegare il fenomeno con una congiuntura economica immediata. Il malessere sociale è intrinseco al capitalismo che produce diseguaglianze, incertezza, solitudine. Questo malessere non ha un segno ideologico, può essere metabolizzato politicamente dalla destra o dalla sinistra. Non è chiaro che l’economia sia la guida del comportamento elettorale, quello che pesa semmai è la percezione dell’economia.

Quella cosa per cui, se anche sta scendendo l’inflazione ma i prezzi al supermercato si mantengono alti, sembra che vada tutto male.

Ma non sempre questo malessere viene politicizzato dalla destra. Quello che vediamo oggi è che i populismi della destra e dell’estrema destra stanno esprimendo questo malessere sociale, ma allo stesso tempo lo stanno amministrando. L’incontro di Trump con Elon Musk è l’immagine di un’epoca.

Era una riflessione che si fece in Cile quando lo schieramento progressista perse il referendum sulla Costituzione: l’avere creduto che l’estallido social fosse di sinistra solo perché la sinistra di Boric lo aveva canalizzato alle presidenziali.

L’economia può aumentare le probabilità di un malessere sociale ma questo non determina che tipo di configurazione politica ne derivi. Il trionfo di Milei può essere interpretato come una sorta di irruzione sociale indiretta, in Cile si espresse con l’estallido social, Milei dice che in condizioni normali non lo avrebbero mai potuto eleggere. Perché una società che vota Milei è una società con un alto livello di nichilismo, sfiducia, disintegrazione, sul bordo dell’estallido o dell’irruzione elettorale. Questi populismi di destra offrono soluzioni non materiali ma psicologiche, soluzioni narrative alla perdita di senso che durano poco, perché anche i loro governi sono vittime della stessa instabilità che incubano. Non è una destra come quella di Reagan, di Thatcher, di Menem, di Berlusconi, che governavano, dando stabilità, ordine. Questa di oggi è una destra di irruzioni, di instabilità.

Musk è stato determinante nella vittoria di Trump: quanto ha pesato la manipolazione della comunicazione?

Non direi esattamente così, ma ne parlerei come dell’immagine di un’epoca. Elon Musk rappresenta in primo luogo il nuovo spazio pubblico digitale. Quindici anni fa Twitter fu la promessa di un’arena pubblica più orizzontale, democratica e razionale, ossia rappresentò un’utopia democratica. Di quest’utopia non è rimasto nulla, è rimasto uno spazio pubblico digitale che favorisce l’odio, la circolazione di bugie ben costruite che esacerba pulsioni antidemocratiche, incapsulando gli utenti in bolle digitali, aumentando l’intolleranza verso il diverso, aggravando i pregiudizi, favorendo l’isolamento, generando ansietà sociali difficili da far corrispondere con i tempi della politica democratica. Questo spazio digitale non ha un buon rapporto con la democrazia.

Musk ha un modello di riduzione dello Stato e di impulso dell’iniziativa privata: è stato di ispirazione per Milei?

Il programma anarcocapitalista che Milei vuole applicare è il programma di Musk. Si sottolinea molto l’incongruenza esistente tra il protezionismo di Trump e il liberismo di Milei, io non sono d’accordo: uno è presidente degli Stati Uniti e l’atro dell’Argentina. C’è un cluster internazionale di destra che in ciascun paese si muove secondo schemi nazionali e in relazione alla propria storia, ma questi paesi mantengono una complicità a livello internazionale. E i loro leader si riuniscono in iniziative di partito più che istituzionali: c’è una deistituzionalizzazione della politica internazionale.

Quanto pesa la paura sul successo di queste destre?

La paura è una delle emozioni politiche più rilevanti nella concorrenza politica contemporanea. La sinistra ha diffidato delle passioni politiche e la destra si è dedicata molto presto a studiarle e a non negarle, considerandole anzi come la materia prima della politica. La politica è anche la costruzione dell’oggetto di questa paura. Nel 2001 la società argentina aveva paura del sistema bancario, oggi una parte della società ha paura dello Stato, ossia: l’oggetto della paura cambia col tempo. La destra fa una politica della sfiducia e della paura. Ma la destra di oggi non offre programmi di governo, non ha un patto programmatico col suo elettorato come avevano le destre degli anni novanta, il suo è un patto ideologico, morale ed emotivo. La democrazia ha bisogno di fiducia. Quello che ha capito questa destra è che deve disintegrare la fiducia nella democrazia, nelle istituzioni, nello Stato. Negli anni ottanta e novanta, il successo della destra era nel durare a lungo. Il successo di questa destra contemporanea è invece nel disintegrare alcuni elementi della cultura politica democratica, delle matrici culturali eredi dello Stato del benessere, nel neutralizzare l’autorità e la legittimità dello Stato come soggetto regolatore.

Perché le sinistre e i progressisti non riescono più a proporre un discorso convincente per l’elettorato?

Oggi la rabbia nei confronti delle conseguenze del capitalismo, ossia delle diseguaglianze sociali, è rappresentata dal populismo di destra non per correggere queste condizioni di malessere ma per aggravarle, farle esplodere. Oggi il capitalismo funziona peggio che mai e ciò nonostante la sinistra non cresce. Da un lato la sinistra ha sofferto di un eccesso di moderazione, una scommessa sul centro che l’ha portata a mascherare le sue proposte. Il motore psicologico della sinistra è il desiderio di trasformazione, uno spirito ribelle trasformatore, oggi non è chiaro invece se la sinistra voglia trasformare o amministrare. Penso che la sinistra debba recuperare un impeto trasformatore molto più energico. In secondo luogo, la destra si muove a livello internazionale: fa un discorso nazionalista e un’azione politica coordinata: stesso discorso, stessa strategia, stessi consulenti, stessa estetica, complicità tra i leader, è come una famiglia. La sinistra non è così, assolutamente. La sinistra deve reinventare la speranza politica collettiva vincolata all’integrazione e all’eguaglianza. La destra ha trovato una parola organizzatrice di tutta la sua azione politica e l’ha trasformata in un centro di gravità della sua strategia che è la libertà, libertà negativa come assenza di restrizioni alle pulsioni individualiste. La sinistra ancora non si anima a fare dell’eguaglianza sociale il cuore del suo orizzonte politico. Segmentare l’elettorato come hanno fatto i democratici nella campagna elettorale statunitense è stato un errore. Non bisogna domandare all’elettorato popolare di essere progressista, bisogna chiedergli che voti per i suoi interessi e i suoi diritti. La sinistra deve tornare alla società. Una sinistra che non sia votata dai settori popolari non è sinistra.

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Elena Marisol Brandolini, giornalista, laureata in Economia, con un master in Diritti del lavoro e un dottorato in Relazioni Internazionali ha lavorato come ricercatrice economica, sindacalista della Cgil e dirigente nella pubblica amministrazione. Da corrispondente dalla Spagna e attenta ai paesi del Sudamerica, ha collaborato con l’Unità, Il Fatto Quotidiano e Radio3Mondo. Scrive su Il Messaggero, il Manifesto, Domani e la rivista East West.
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