Perché l’attacco di Israele all’Iran rischia di far esplodere tutto il Medio Oriente: l’analisi dell’esperto

Lo spettro di un attacco israeliano all'Iran si è concretizzato la scorsa notte, quando le IDF hanno lanciato una vasta operazione militare contro Teheran colpendo obiettivi nevralgici del programma nucleare della Repubblica islamica e uccidendo tre figure di spicco della sicurezza nazionale iraniana. L'attacco che segna una drammatica escalation nelle tensioni tra i due storici nemici e alimenta il timore concreto di una guerra regionale su larga scala. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito l’operazione "l’ultima risorsa" per impedire che Teheran, ritenuta da Israele una minaccia esistenziale, si doti dell’arma atomica. Le forze israeliane hanno colpito impianti nucleari, basi missilistiche, difese aeree e orchestrato omicidi mirati contro scienziati e ufficiali del programma nucleare, dimostrando una capacità d'infiltrazione allarmante.
"Non è stata un’azione improvvisata", avverte – interpellato da Fanpage.it – Giuseppe Dentice, analista esperto di Medio Oriente dell’Osservatorio sul Mediterraneo (Osmed). "È una strategia che affonda le radici in almeno vent’anni di politica israeliana. L’operazione di questa notte è il frutto di un lavoro d’intelligence e pianificazione militare lungo oltre un decennio". Secondo Dentice, la gravità dell’attacco va oltre i raid aerei: "Israele è riuscito a penetrare nel cuore delle istituzioni iraniane, colpendo i Pasdaran dall’interno".
La reazione iraniana è già in corso, con lanci di droni e minacce di ritorsione che potrebbero coinvolgere altri attori regionali e arrivare al ricorso al terrorismo contro cittadini israeliani ovunque si trovino, Europa compresa. "Il rischio – spiega Dentice – è che stiamo assistendo all’inizio di una ridefinizione violenta degli equilibri in Medio Oriente".

Professore, da quanto tempo Israele preparava questo attacco contro l’Iran?
Non è una decisione maturata nelle ultime settimane. Parliamo di una strategia di lungo corso, radicata nella politica estera israeliana da almeno 15-20 anni, in particolare sotto la leadership di Netanyahu. Il contenimento dell’Iran e la sua minaccia nucleare sono stati un mantra costante. L’operazione, nella sua fase militare e di intelligence, si sviluppa invece almeno da un decennio. Non è un’azione improvvisata, non è stata organizzata nelle ultime settimane, non risponde a un'"emergenza". Se gli attentati con i cercapersone del Libano dello scorso settembre avevano avuto un percorso di costruzione di 5 anni, l'operazione in Iran della scorsa notte ha avuto una genesi ben più lunga, almeno il doppio.
Si tratta dunque di una doppia operazione: militare e di intelligence?
Esattamente. Da un lato abbiamo i raid aerei, come quello su Natanz, e dall’altro un’azione molto più preoccupante: le infiltrazioni nel cuore delle istituzioni iraniane, in particolare nei Pasdaran. Israele è riuscito a colpire comandanti, scienziati e figure chiave del programma nucleare direttamente sul suolo iraniano. Oltre a quelli della scorsa notte, gli omicidi mirati di figure chiave in Iran sono stati condotti anche negli ultimi mesi e anni. Questo dimostra che il sistema di sicurezza iraniano è pesantemente compromesso.

Quali fattori hanno spinto Israele a colpire in questo momento?
Ci sono almeno due motivi. Internamente, Netanyahu era a rischio politico: pochi giorni fa il suo governo ha superato a fatica un voto di fiducia a causa del rischio di uscita dalla maggioranza di due importanti partiti come United Torah Judaism e Shas. Un’escalation bellica può servire a distrarre l’opinione pubblica e consolidare il potere. Esternamente, domenica era previsto un nuovo round di colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti sul nucleare. Israele, colpendo ora, manda un segnale forte, cercando di influenzare quei negoziati o addirittura di bloccarli.
Washington era al corrente dell’attacco?
È molto difficile immaginare un’operazione di questa portata senza un confronto, almeno informale, con gli Stati Uniti. Le recenti comunicazioni tra Netanyahu e figure vicine a Trump sembrano suggerire una sorta di consenso, seppur tacito. Israele sa bene che certe mosse devono essere quanto meno coordinate con Washington, anche per evitare gravi ricadute strategiche.
Non più tardi di ieri l’AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) ha denunciato le inadempienze dell’Iran sull’accordo nucleare. È stato un "assist" involontario a Netanyahu?
In parte sì, anche se non sono in grado di dire quanto effettivamente l'Iran fosse vicino al dotarsi di un ordigno nucleare. L’AIEA ha dato fiato alle accuse israeliane e americane. Tuttavia, è curioso che pochi mesi fa lo stesso direttore dell'agenzia, Raphael Grossi, parlasse di un rischio contenuto, mentre oggi il tono è completamente cambiato. O qualcosa è sfuggito prima, o è stato scoperto qualcosa di nuovo. Resta il fatto che, anche se l’Iran fosse vicino all’arma nucleare, la narrazione pubblica dell'AIEE si è rivelata utile a giustificare l’azione militare di Tel Aviv.
Israele può davvero fermare o ritardare significativamente il programma nucleare iraniano?
È difficile dirlo con certezza, perché non conosciamo la reale entità dei danni inflitti con gli attacchi delle scorse ore. I siti di Natanz e forse Fordow sono stati colpiti, ma quanto a fondo? E cosa è stato davvero danneggiato? Se è vero che l’Iran ha già acquisito le competenze chiave per costruire un ordigno atomico, potrà ricostruire il tutto e sarà solo una questione di tempo. Israele può guadagnare mesi o anni, ma difficilmente riuscirà a fermare un processo in corso da decenni in Iran. A meno che non entri in gioco un'azione continuativa e più radicale, con tutti i rischi del caso.
Che risposta dobbiamo attenderci da Teheran?
L’Iran ha già lanciato centinaia di droni verso Israele e dovrebbero arrivare a destinazione nelle prossime ore. I missili balistici restano però l’arma di maggiore impatto e preoccupazione. C'è il rischio concreto che vengano coinvolti anche altri Paesi: Stati Uniti, Emirati, Arabia Saudita. Non a caso, le ambasciate americane nella regione sono state parzialmente evacuate, e non a caso. L’Iran potrebbe colpire anche con strumenti indiretti: terrorismo (anche in Europa), attacchi cyber, sabotaggi alle infrastrutture energetiche, o perfino la chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui transitano il 20-25% del petrolio e gas mondiali. Di certo, il regime di Teheran mediterà attentamente ogni mossa e valuterà ogni possibile ricaduta. In questo quadro occorre prestare molta attenzione allo Yemen: è uno dei teatri più strategici e sottovalutati. I gruppi filo-iraniani nello Yemen, come gli Houthi, sono già attivi contro Israele nel Mar Rosso. Potrebbe diventare un campo di battaglia chiave nei prossimi mesi.
Proviamo a guardare il quadro nel suo complesso. Israele è impegnata a Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Iran e Siria. Qual è, secondo lei, l’obiettivo strategico di lungo periodo per Tel Aviv in Medio Oriente?
Israele sta cercando di ridefinire la mappa del potere mediorientale. Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iran e Yemen sono pezzi dello stesso puzzle. L’obiettivo è un nuovo ordine regionale in cui Israele sia il perno, anche in alleanza con Paesi arabi che condividono l’interesse per la stabilità e la lotta all’Iran. Ma tutto dipende anche da quanto gli Stati Uniti saranno disposti a sostenere questa visione. Il rischio è quello di un Medio Oriente spinto verso una ridefinizione violenta dei propri equilibri.