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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Perché l’accordo di Trump su Gaza è solo una pausa e non la fine del conflitto israelo-palestinese

Come si è arrivati all’accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas e perché non rappresenta la fine del conflitto israelo-palestinese ma solo una sua “pausa”. Una tregua che non metta davvero l’accento sulla condizione postcoloniale in cui vivono i palestinesi non potrà mai rappresentare la fine sistematica delle ostilità.
A cura di Giuseppe Acconcia
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“È un miracolo”, ha commentato all’annuncio dell’accordo la palestinese, Rewaa Mohsen, da Gaza. Tra festeggiamenti e incredulità, i palestinesi di Gaza hanno accolto con gioia e sollievo la notizia del raggiungimento dell’intesa tra Israele e Hamas per il cessate il fuoco, negoziata dal presidente Usa, Donald Trump. La prima fase del piano determinerà finalmente la fine dei bombardamenti dell’esercito di Tel Aviv (Idf) a Gaza. Trump ha confermato sul suo social network Truth che tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas saranno liberati e che l’esercito israeliano si ritirerà quasi completamente dalla Striscia per una “pace forte e duratura”.

L'accordo di pace a Gaza e la liberazione degli ostaggi

Questa pausa del conflitto dopo la conclusione, lo scorso primo marzo, del cessate il fuoco negoziato dall’ex presidente Usa, Joe Biden, ed entrato in vigore il 19 gennaio, è di sicuro una buona notizia. I palestinesi hanno sofferto uno dei genocidi più gravi della loro storia recente con l’uccisione di oltre 67mila persone, esclusi le migliaia di corpi ancora sotto le macerie.

Le vittime sono principalmente donne e bambini, mentre i superstiti continuano a vivere in condizioni di carestia, malnutrizione, con continui casi di amputazioni tra i feriti, nella minaccia di deportazioni e pulizia etnica e nella costante distruzione di tutte le infrastrutture, le abitazioni, gli ospedali, le università e il patrimonio culturale locale.

Con la liberazione il prossimo lunedì dei 20 ostaggi ancora in vita e la restituzione dei resti degli altri 28 israeliani nelle mani di Hamas, Idf non potrà più usare il pretesto degli ostaggi degli attacchi del 7 ottobre 2023 per continuare a bombardare indiscriminatamente Gaza. D’altra parte, secondo Hamas, saranno 1950 i prigionieri politici palestinesi a essere liberati contestualmente al rilascio degli ostaggi. Non saranno inclusi nella lista dei detenuti rilasciati, ancora non resa nota, due leader storici palestinesi, come Marwan Barghouti e Ahmad Saadat.

Le reazioni israeliane all'intesa con Hamas

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, ha salutato l’accordo come un “grande giorno per Israele” e ha difeso il suo obiettivo di riportare a casa gli ostaggi.

Proprio la richiesta di liberazione degli israeliani nelle mani di Hamas è stata costantemente rivendicata in sit-in e manifestazioni nelle città del paese. E così anche i familiari degli ostaggi hanno accolto con gioia e festeggiamenti la notizia dell’accordo.

In questa fase, l’opposizione espressa dai politici di estrema destra, come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, contrari a qualsiasi intesa che ponesse fine alla guerra e che voteranno contro l’accordo, è stata superata dalle costanti pressioni internazionali e dalle mobilitazioni senza precedenti per la Palestina che hanno chiesto la cessazione delle ostilità dopo due anni di guerra.

Nell'accordo di pace lo stop alle deportazioni dei palestinesi

Un altro aspetto positivo degli accordi, e tra le principali richieste dei mediatori arabi, è lo stop alle deportazioni dei palestinesi che avrebbero potuto determinare un esodo senza precedenti dalla Striscia verso Egitto e Giordania.

“Ringraziamo i mediatori di Qatar, Egitto e Turchia che hanno lavorato per rendere questo accordo possibile”, ha più volte ribadito lo stesso Trump. In realtà proprio la pressione ai confini dei paesi vicini, insieme ai raid israeliani in Qatar del 9 settembre scorso contro il tavolo negoziale, hanno dato un’accelerazione senza precedenti ai colloqui di pace.

In altre parole, è diventato intollerabile anche per i paesi arabi, che avevano promosso la normalizzazione con Israele con gli Accordi di Abramo, il genocidio, la pulizia etnica e le mobilitazioni interne e internazionali contro le violazioni del diritto internazionale che avvengono a Gaza. Nonché la minaccia costante di un’estensione del conflitto, dopo Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran, che gli attacchi a Doha del 9 settembre scorso avevano fatto presagire.

Usa e Israele alleati di ferro

Dopo due anni di guerra appare sempre più centrale il rapporto privilegiato tra Stati Uniti e Israele. In altre parole, la guerra di Netanyahu, proseguita all’infinito per coprire la crisi politica e le accuse di corruzione a suo carico, è stata tollerata da Washington finché non è iniziata a essere ingombrante anche per Donald Trump, con le sue aspirazioni di essere rappresentato come un “uomo di pace”.

Questa divergenza di interessi è apparsa con chiarezza in due occasioni: con la guerra dei 12 giorni, che ha messo in crisi la tenuta della Repubblica islamica in Iran, la cui fine avrebbe rappresentato l’avvio di una stagione di grande instabilità per il Medio Oriente, e con gli attacchi in Qatar che hanno messo in allerta il mondo arabo.

Tuttavia, il genocidio a Gaza ha dimostrato fino a che punto Israele è diventato il braccio armato in Medio Oriente degli Stati Uniti, impegnati nel disimpegno militare dalla regione. In questo modo, Tel Aviv ha smesso di negoziare la sua presenza con i paesi vicini mettendo a repentaglio la stessa tenuta delle istituzioni israeliane.

Le reazioni internazionali al cessate il fuoco a Gaza

I colloqui indiretti per il cessate il fuoco erano ripresi lunedì scorso al Cairo e a Sharm el-Sheikh, alla presenza dell’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, e del genero di Trump, Jared Kushner. Mercoledì sera sono emersi i primi segnali di una possibile intesa sulla prima fase, confermata dal segretario di Stato Usa, Marco Rubio, del piano in 20 punti annunciato da Trump la scorsa settimana.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha salutato con favore l’accordo e ha chiesto alle parti di rispettarlo in tutti i suoi termini. “L’accordo deve essere applicato senza ritardi con la fine di tutte le restrizioni agli aiuti umanitari”, è stato il commento del premier britannico Keir Starmer, che insieme a Emmanuel Macron, che a sua volta ha auspicato che l’intesa segni “la fine della guerra”, e a altri leader internazionali, ha riconosciuto lo stato della Palestina a fine settembre.

Le incognite del piano Trump per la pace a Gaza

A questo punto sarà necessario capire se tutto andrà per il verso giusto, a conclusione della prima fase, con lo scambio tra ostaggi e prigionieri politici palestinesi e il ritiro quasi completo, che sarebbe già iniziato, di Idf da Gaza. Si dovrà verificare se tutte le agenzie delle Nazioni Unite potranno tornare in via indipendente a fornire aiuti alla popolazione palestinese, stremata dalla guerra, e dopo le polemiche per le uccisioni di migliaia di palestinesi in fila per gli aiuti umanitari, distribuiti dalla israelo-americana, Gaza Humanitarian Foundation (Ghf).

Sarà poi necessario verificare quali paesi arabi daranno la loro disponibilità per entrare a far parte della Forza internazionale di stabilizzazione (Fis) che dovrà occuparsi di mettere in sicurezza la Striscia per avviare il lungo processo di raccolta delle macerie e di ricostruzione. Israele ha, per esempio, posto il suo veto a una presenza militare turca a Gaza, come auspicato da Hamas.

Non è ancora chiaro quale ruolo ricoprirà il così detto “Board of Peace”, organismo tecnico chiamato a gestire la transizione dal quale dovrebbe essere esclusa Hamas e l’Autorità nazionale palestinese ma che neppure dovrebbe contenere il nome controverso di Tony Blair, per esplicita richiesta del gruppo.

L'accordo non metterà fine al conflitto israelo-palestinese

“Per una vera pace e la fine del conflitto, ci vuole ancora tanto lavoro”, è stato il commento a caldo dell’ex inviato speciale Usa per il Medio Oriente, David Satterfield. In verità, restano irrisolti tutti i nodi centrali del conflitto israelo-palestinese che va avanti dal 1948 con la fondazione dello stato di Israele e la Nakba (catastrofe) per i palestinesi che hanno dovuto lasciare le loro case senza diritto al ritorno.

I coloni israeliani continuano inesorabilmente a costruire le loro colonie abusive in Cisgiordania, non si fermano gli sfratti tra i palestinesi a Gerusalemme Est, non è prevista la fine dell’assedio di Gaza. Su quest’ultimo punto, nonostante l’incredibile mobilitazione internazionale che continua, della Global Sumud Flotilla, le acque territoriali palestinesi, con tutto quello che ne consegue in materia di estrazione di gas naturale, continuano a essere controllate dalla Marina israeliana.

Apartheid e colonialismo

E così prosegue l’apartheid sul modello del Sud Africa che costringere i palestinesi a vivere segregati e come cittadini di serie B. Non solo, la fine del regime di Bashar al-Assad ha esteso il controllo dell’esercito israeliano sulle Alture del Golan, in violazione degli accordi di pace del 1974, mentre continua ad essere violato, oltre 4500 volte secondo i dati di Beirut, il cessate il fuoco con il Libano, dopo l’accordo raggiunto il 24 novembre 2024.

Quindi, appare sempre più evidente che una tregua che non metta davvero l’accento sulla condizione postcoloniale in cui vivono i palestinesi, in assenza di un loro stato, e sulle carenze del sistema politico israeliano che davvero ha dimostrato di essere molto lontano dal rispettare standard democratici credibili, come confermato nel caso dell’intercettazione, delle violazioni in detenzione e delle deportazioni subìte dagli attivisti della Flotilla, non potrà mai rappresentare una fine sistematica delle ostilità.

In queste condizioni, le provocazioni dei ministri di estrema destra israeliani così come lo stato di assedio in cui continuerà a vivere la Striscia di Gaza, insieme alla resilienza di ragazzi e ragazze palestinesi che hanno visto distrutte le loro famiglie, continueranno inesorabilmente a fomentare l’odio contro Israele delle nuove generazioni.

All’annuncio dell’intesa, Hamas ha ricordato il “coraggio, l’onore e l’eroismo” dei palestinesi che hanno vissuto in condizioni estreme rimanendo nella propria terra. La resilienza dei gazawi è il primo punto da cui partire per stabilire che i palestinesi mai si rassegneranno allo svuotamento di Gaza per farne la “Riviera del Medio Oriente”, come auspicato dal progetto immobiliare di Trump, e mai rinunceranno alle loro legittime rivendicazioni nazionali, oltre i veti di Stati Uniti e Israele. E così qualsiasi sarà il futuro di Hamas, tra disarmo, esilio e clandestinità, mai morirà tra i sopravvissuti del genocidio la necessità di vedere riconosciuti i propri diritti di cittadinanza, di ritornare nelle proprie terre e di riprendere in mano la propria vita, nel nome di chi è stato barbaramente ucciso in questa guerra, come il poeta palestinese Refaat Alareer, il giornalista Anas al-Sharif e la piccola Hind Rajab.

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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