
Gran Bretagna, Francia, Canada, Australia e Portogallo hanno annunciato ufficialmente il riconoscimento dello stato palestinese alla vigilia dell’Ottantesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in corso a New York.
“Oggi, per rivitalizzare la speranza di pace per palestinesi e israeliani, e la soluzione dei due stati, la Gran Bretagna riconosce formalmente lo stato palestinese”, ha scritto su X il premier inglese, Keir Starmer.
Questa dichiarazione storica, sebbene tardiva, è una buona notizia per chi difende il diritto dei palestinesi ad avere un proprio stato. Purtroppo, però questo non significa che il passo fatto da questi paesi, che si sono uniti agli altri paesi membri delle Nazioni Unite che già riconoscono la Palestina, fermerà il genocidio in corso a Gaza.
Una dichiarazione simbolica?
Perché esista uno stato è necessario che ci sia un popolo, un territorio e la sovranità delle leggi. Dei tre criteri per poter parlare di stato, quello che manca sempre di più alla Palestina è il territorio. Questo avviene per la continua erosione della Palestina storica per opera di Israele in seguito alla Nakba (catastrofe) che nel 1948 portò alla nascita di Israele.
Da quel momento in poi la possibilità che nascesse uno stato palestinese al fianco di Israele, dando vita alla cosìddetta soluzione dei due stati, è stata costantemente minata dall’assedio della Striscia di Gaza, dalla politica degli insediamenti in Cisgiordania, dagli espropri a Gerusalemme Est. In altre parole, le autorità israeliane non vogliono che ci sia un territorio che possa essere chiamato Palestina.
E così per ottenere il loro scopo hanno tre strumenti che fin qui nessun paese al mondo ha impedito che vengano messi in pratica in Palestina: il genocidio dei palestinesi, la pulizia etnica di chi si rifiuta di lasciare la propria terra e l’apartheid di chi rimane ed è costretto a vivere in veri e propri campi di concentramento.
Il riconoscimento dello stato di Palestina: un momento storico ma arrivato molto tardi
Il riconoscimento della Palestina è un passo molto importante per affermare il diritto inalienabile dei palestinesi ad avere un loro stato, ma questa decisione è arrivata davvero con grande ritardo. “È un momento storico per il nostro diritto all'autodeterminazione”, è stata la reazione di alcuni ministri dell’Autorità nazionale palestinese.
Era il 1917 quando il governo britannico ha annunciato con il documento più breve della storia, la Dichiarazione Balfour, il suo sostegno per la formazione di un futuro stato di Israele in Palestina. E così, solo dopo 108 anni, è arrivato il riconoscimento da parte inglese dello stato palestinese. Come ha sostenuto Chris Doyle, direttore del Council for Arab-British Understanding, la realtà è che “il riconoscimento non fermerà le bombe, la carestia, il genocidio e l’apartheid”.
Ancora più dure sono state le parole di Hannah Bond, ceo di ActionAid Uk. “È una vergogna che non sia stato fatto prima e che il riconoscimento della Palestina sia stato usato come pedina di scambio per negoziare con le autorità israeliane”.
Lo scorso mese, il governo britannico ha pubblicato un Memorandum of Understanding con l’Autorità nazionale palestinese in cui si è impegnata a lavorare per la soluzione dei due stati, secondo i confini del 1967, per la formazione di uno stato palestinese indipendente e a “non riconoscere i territori palestinesi occupati da Israele, inclusa Gerusalemme Est”.
D’altra parte, le autorità inglesi hanno chiesto anche il disarmo di Hamas e hanno sospeso 30 delle loro 250 licenze per la vendita di armi a Israele anche se continuano a fornire all’Idf i potenti jet F-35.
Dal canto suo, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha fatto sapere che la decisione segna “l’inizio di un processo politico e di un piano di sicurezza per tutti”. Parigi ha anche assicurato che non sarà aperta un’ambasciata francese in Palestina prima del rilascio di tutti gli ostaggi israeliani (48) in mano ad Hamas dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023.
Uno stato che non c’è
Il solo fatto di riconoscere uno stato, sebbene costantemente sotto assedio e cancellato dalle carte geografiche per mano dell’esercito israeliano, è di per sé una buona notizia. Sancisce il diritto all’esistenza per il popolo palestinese in un territorio che si spera sia il più vicino possibile ai confini definiti dalle Nazioni Unite nel 1948 o nel 1967.
E così Israele non ha potuto fare altro che tuonare contro l’iniziativa inglese, e francese, minacciando l’annessione dell’82% del territorio della Cisgiordania, dove già vive una buona fetta di coloni israeliani, mentre gli insediamenti continuano ad espandersi nel costante tentativo di prevaricazione demografica da parte degli israeliani che hanno relegato anche gli arabi israeliani ad essere solo una minoranza politicamente irrilevante in Israele.
Non solo, a chiarire che nei progetti del governo israeliano non c’è alcuno spazio per la soluzione dei due stati, sono arrivate le parole di Netanyahu. Il premier israeliano ha detto che “non ci sarà mai uno stato palestinese” definendo il riconoscimento della Palestina come un regalo ad Hamas. Mentre il ministro radicale, Bezalel Smotrich, ha aggiunto che queste iniziative rappresentato la “pietra tombale” per i piani di costituire uno stato palestinese.
Gli Stati Uniti si accodano a Israele, come sempre
Neppure gli Stati Uniti, che nei giorni scorsi per la sesta volta hanno posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza, hanno mai nascosto il loro disaccordo per l’iniziativa del riconoscimento dello stato palestinese, come sottolineato nella recente visita di Trump a Londra.
Come se non bastasse, gli Usa hanno pianificato la vendita di armi per 6 miliardi di dollari a Israele, inclusi elicotteri Apache e veicoli di assalto per la fanteria. Non solo, Washington si è accodata all’Idf nell’attacco alle infrastrutture militari e nucleari nella guerra dei 12 giorni contro l’Iran, dimostrando sempre di più che è Tel Aviv a dettare l’agenda di Trump in Medio Oriente.
Per i ministri radicali del governo Netanyahu, come Itamar Ben-Gvir, la decisione di Francia e Gran Bretagna richiede “contromisure immediate” con l’acquisizione da parte di Israele della “sovranità su Giudea e Samaria”.
Anche se questo piano radicale non dovesse essere approvato, nonostante gli Stati Uniti abbiano dimostrato fin qui di non porre nessun freno alle politiche genocidiarie israeliane e di aver reagito negativamente soltanto agli attacchi di Idf che hanno azzerato i negoziati di pace in Qatar, Netanyahu potrebbe comunque dichiarare l’annessione unilaterale di parte della Cisgiordania nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
La strada delle sanzioni
E così il riconoscimento della Palestina sarebbe significativo solo se favorisse nuove sanzioni contro Israele per la guerra a Gaza, che puntino a colpire anche i ministri più oltranzisti con i loro discorsi di odio verso i palestinesi e le provocazioni continue che mettono in atto per alimentare le violenze nei territori occupati.
Queste misure dovrebbero portare all’isolamento commerciale di Tel Aviv e alla fine delle forniture di armi spingendo le autorità israeliane a voltare pagina e chiudere la stagione del conflitto nella Striscia.
Dopo la decisione annunciata domenica, anche l’Unione europea dovrebbe approvare nuove sanzioni contro Tel Aviv. Fin qui i provvedimenti adottati da Bruxelles sono sembrati davvero timidi e poco efficaci con paesi come l’Italia contrari, non solo al riconoscimento della Palestina, ma anche a premere il pedale sull’acceleratore per approvare misure sanzionatorie che mirino a fermare il genocidio a Gaza.
La Palestina vista dal mondo arabo
Una reazione dura da parte israeliana al riconoscimento della Palestina provocherebbe anche i paesi arabi vicini, impegnati a limitare i danni delle deportazioni forzate di palestinesi da Gaza. Forse oltre 400mila persone hanno lasciato la Striscia mentre è in corso l’operazione di terra di Idf a Gaza City che sta devastando quello che rimane della principale città dell’enclave.
Per esempio, gli Emirati Arabi Uniti hanno definito qualsiasi ulteriore annessione di territorio in Cisgiordania una “linea rossa” per le relazioni diplomatiche con Israele dopo il riconoscimento formale, insieme al Bahrain, avvenuto dopo le storiche decisioni negli ultimi decenni di allacciare rapporti diplomatici con Tel Aviv da parte di Egitto, Marocco e Giordania.
Proprio il Cairo è tra i paesi più preoccupati per le deportazioni dei palestinesi. E così la tensione è alle stelle nel Sinai mentre aumenta il dispiegamento dei militari egiziani nella regione di confine. E questo ha accresciuto le preoccupazioni di Idf che ha chiesto agli Stati Uniti di intervenire contro presunte violazioni del Trattato di pace del 1979 con il Cairo mentre l’esercito israeliano ha chiesto di fermare immediatamente la guerra a Gaza.
Un tribunale per denunciare le violazioni del diritto internazionale umanitario a Gaza
Se in Italia, la decisione dei governi inglese, canadese, australiano e portoghese appare un passo decisivo per il futuro del conflitto, a Londra l’iniziativa di Starmer sembra ancora troppo poco. E così l’ex leader labourista Jeremy Corbyn ha guidato l’iniziativa di un Tribunale per Gaza per denunciare le violazioni del diritto internazionale umanitario a Gaza a cui partecipa il governo britannico ignorando i suoi obblighi legali per impedire che il genocidio a Gaza continui.
Dopo aver ascoltato le testimonianze di 29 esperti, Corbyn riferirà al ministro degli Esteri britannico per spiegare che Londra ha fatto troppo poco per denunciare le gravi responsabilità israeliane favorendo Tel Aviv con la condivisione di informazioni di intelligence, continuando a importare prodotti da Israele, e ancora, non chiedendo la verità sull’uccisione dell’operatore britannico, James Henderson, dell’inglese World Central Kitchen, il primo aprile 2024 per mano di un attacco di Idf.
Il riconoscimento dello stato palestinese da parte di Francia e Gran Bretagna, insieme ad altri paesi, mentre altri membri delle Nazioni Unite, come Italia e Germania, continuano a rimandare una decisione così significativa, è una buona notizia per l’infinito conflitto israelo-palestinese ma arriva troppo tardi.
Appare agli occhi di molti osservatori come un tentativo di lavarsi le mani, a costo zero, da parte di governi che sono complici o attori diretti nel genocidio israeliano a Gaza con i suoi 65mila morti. E così l’iniziativa, sebbene positiva, non spingerà Israele a fermare il genocidio mentre sta già radicalizzando ancora di più le posizioni dei politici ultraconservatori a Tel Aviv. Questo dimostra una volta di più che Israele ha sempre ostacolato la formazione di uno stato palestinese rendendo vani i riferimenti alla soluzione dei due stati.
A questo punto però i paesi che riconoscono la Palestina hanno tutti gli strumenti necessari, e già esistenti, per imporre sanzioni dure contro Israele e fermare davvero il genocidio. Il solo riconoscimento dello stato palestinese in assenza di misure concrete che ne permettano l’esistenza rischia di non rappresentare un vero argine alla deriva genocidiaria di Israele e di rimanere solo una simbolica dichiarazione di intenti.
