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Perché il Compromesso di Siviglia è un passo importante dopo l’elezione di Trump: l’analisi dell’esperta

Magdalena Sepúlveda spiega a Fanpage.it perché il Compromesso di Siviglia, siglato durante la IV Conferenza Onu sul finanziamento allo sviluppo, è un passo importante a maggior ragione dopo l’elezione di Trump.
Intervista a Magdalena Sepúlveda
Avvocata cilena, direttora dell’Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sullo Sviluppo Sociale e componente della Commissione indipendente per la riforma della tassazione internazionale.
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Immagine di repertorio
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Magdalena Sepúlveda è un'avvocata cilena, direttora dell’Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sullo Sviluppo Sociale (UNRISD) e componente della Commissione indipendente per la riforma della tassazione internazionale presieduta da Joseph Stiglitz (ICRICT). La incontriamo a Siviglia, nel corso della IV Conferenza Onu sul finanziamento allo sviluppo, in cui partecipa a diversi momenti della discussione. Ragioniamo con lei dei contenuti della risoluzione finale della conferenza, il cosiddetto Compromiso de Sevilla, che impegna i Paesi firmanti a dare nuovo impulso alla cooperazione internazionale, dell'importanza del multilateralismo come spazio di dialogo e accordo, della riforma della fiscalità internazionale e del problema dell’indebitamento che attanaglia molti paesi in via di sviluppo. Con lei infine parliamo delle primarie nel campo progressista che si sono tenute la scorsa domenica nel suo Paese, in vista delle prossime presidenziali di novembre e dell’ultima legislatura guidata dal presidente Gabriel Boric.

Magdalena Sepulveda
Magdalena Sepulveda

La quarta conferenza Onu sul finanziamento allo sviluppo ha adottato per consenso il cosiddetto Compromiso de Sevilla: che significato ha? 

È un passo importante, perché ci troviamo in un momento molto difficile per il multilateralismo. Dopo l’elezione di Trump, potere arrivare ad accordi significativi nel quadro dell’Onu come quello adottato qui a Siviglia, scritto in un linguaggio abbastanza buono, in cui si fanno passi avanti rispetto alla scorsa conferenza di Addis Abeba, è un fatto significativo.

Nella risoluzione di quest'anno, qual è il rapporto tra il ruolo del settore pubblico e quello del settore privato nel finanziamento allo sviluppo?

Il ruolo del settore pubblico si è rafforzato, mi sembra. Anche se il documento tratta il settore privato in maniera ancora molto aperta, mentre ci vorrebbe una sua maggiore regolamentazione. Ma propone il ruolo dello Stato come importante, mettendo al centro la funzione della protezione sociale.

Perché una riunione Onu sul sostegno allo sviluppo appare quasi eversiva, rispetto al discorso dominante delle estreme destre mondiali che criticano l’Agenda 2030 come "ideologia woke"?

Penso che questo succede perché abbiamo perso l’egemonia del discorso. La maggioranza sociale è a favore dell’intervento dello Stato, ma siamo in un momento nel quale le estreme destre stanno vincendo sul piano della narrazione. E allora viene da pensare che qui si stia facendo qualcosa di sovversivo, mentre quello che stiamo facendo è portare avanti un’agenda che iniziò a Monterey nella prima conferenza sul finanziamento allo sviluppo e abbiamo continuato in quelle successive. Si è dissociato quello che pensa la gente comune su ciò che è necessario per il benessere sociale da quello che dicono i media, le reti sociali influenzati dal discorso Maga.

A che serve il multilateralismo?

La complessità delle sfide del mondo attuale richiede che i paesi prendano misure comuni, non si può risolvere il tema del cambio climatico, né quello delle guerre se i paesi non si mettono d’accordo. Il multilateralismo è uno spazio, come quello delle Nazioni Unite, dove si può giungere a negoziare soluzioni che tengano conto di tutte le opzioni. La critica principale di inefficienza al multilateralismo dell’Onu è sull’incapacità del Consiglio di Sicurezza, di cui sono membri cinque paesi con diritto di veto, ad agire nelle grandi crisi attuali, come Gaza o Ucraina. Ma senza questo spazio comune di discussione non potremmo risolvere i problemi tanto complessi che ci sono, abbiamo bisogno che i paesi si mettano d’accordo e lavorino insieme, e questo è possibile solo in uno spazio multilaterale.

Si è detto che Michelle Bachelet, ex presidente del Cile, potrebbe succedere nel 2027 ad António Guterres, attuale segretario generale dell’Onu: è così? 

Nella stampa cilena è venuto fuori il suo nome come possibile candidata, ma ci sono più nomi di donne in lizza. C’è una regola non scritta, secondo cui il prossimo mandato spetti al Sudamerica e speriamo anche che il prossimo leader dell’Onu sia una donna.

Veniamo al merito della conferenza. Il taglio agli aiuti da parte degli Stati Uniti e di altri paesi europei è stato forte nel 2024 e, secondo l’Ocse, aumenterà quest’anno: com’è possibile un’inversione di rotta in un’epoca di riarmo generalizzato?

Si stimano tagli del 26% per il 2026 rispetto al 2024. Un modo importante per finanziare lo sviluppo è quello che definiamo come mobilitazione di risorse domestiche mediante l’imposizione fiscale. Non stiamo parlando di imposte sulla classe media, ma che paghino il dovuto quelli che oggi non contribuiscono, come le imprese multinazionali e i multimilionari. Il problema – e qui torna in gioco il multilateralismo – è che i paesi individualmente non possono cambiare le regole della tassazione delle multinazionali o dei super ricchi, perciò l’unica maniera affinché multinazionali e super ricchi paghino il giusto è che gli Stati si mettano d’accordo. L’Ocse stava scrivendo delle regole per un’imposta minima globale sulle multinazionali, ma l’Ocse continua a essere sempre il club dei paesi ricchi; ha proposto un approccio inclusivo, ma i paesi in via di sviluppo non hanno la possibilità di negoziare con la stessa forza dei paesi ricchi o delle multinazionali. Uno dei primi ordini esecutivi di Trump, una volta eletto, è stato contro l’imposta minima globale e poi si è accordato con i paesi del G7 per l’esenzione delle multinazionali americane dall’imposta minima.

Il Compromiso de Sevilla prevede un comitato fiscale intergovernativo dell’Onu, di che si tratta?

Quello era già esistente, si tratta di un comitato tecnico. La novità invece è che il gruppo africano dell’Onu, nel 2023, ha promosso una risoluzione per cominciare a far emergere una convenzione dell’Onu sulla cooperazione in materia di imposte. Questa convenzione, che avrà due protocolli, si comincerà a negoziare quest’anno; nel 2024 si sono individuati i termini di riferimento, nel prossimo mese di agosto si comincerà a negoziare il contenuto. Si tratta di una convenzione quadro come quella sul cambio climatico, che permetterà agli Stati un adattamento alle loro leggi nazionali. La convenzione si negozierà fino al 2027 e nel Compromiso de Sevilla gli Stati si impegnano a sostenerne il negoziato. Si tratta di una grande differenza rispetto alla conferenza di Addis Abeba, perché adesso il tema dell’imposizione progressiva gioca un ruolo molto rilevante.

Lei è componente della Commissione per la riforma della fiscalità internazionale (Icrict) presieduta da Stiglitz: come può aiutare la riforma fiscale a rendere più equo il finanziamento allo sviluppo?

La riforma fiscale permetterà che i paesi che non hanno accesso alle risorse ricevano risorse dalle multinazionali, perché queste non invieranno più i loro guadagni a paradisi fiscali ma pagheranno le loro imposte nei paesi dove operano. Il cui gettito potrebbe essere destinato dagli Stati a finanziare investimenti nei servizi pubblici.  

Guterres dice che “il sistema mondiale del debito è ingiusto”: che si può fare per riformarlo? La dichiarazione finale di Siviglia parla solo di sospensione dei pagamenti in situazioni eccezionali ed è molto criticata dalle Ong su questo punto.

Il tema del debito è grave, ci sono molti paesi che pagano più in debito che in investimenti per lo stato sociale. E’ una delle carenze del Compromiso de Sevilla, perché non interviene sulla questione del debito come avrebbe dovuto, le Ong hanno insistito per creare una convenzione sul debito obbligatoria per i paesi, che però non si è ottenuta. E’ una delle critiche che si può muovere al Compromiso de Sevilla, quella di non dare i passi necessari sul tema del debito. E’ una questione su cui le resistenze dei paesi creditori sono molto forti.

Come si sviluppa la piattaforma contenuta nel Compromiso de Sevilla?

Questa piattaforma rappresenta un impegno non vincolante, ha un alto valore simbolico, identifica un percorso. Quello che segnala è l’impegno a sostenere la cooperazione, a guardare l’economia di un paese oltre il Pil valorizzando perciò altri temi, come l’economia della cura su cui ora disponiamo di un linguaggio proprio. E mette la persona al centro del finanziamento allo sviluppo, in relazione col tema dei diritti umani.

Cambiamo argomento, andando nel suo paese. Domenica scorsa in Cile si sono svolte le primarie nel campo progressista per le prossime presidenziali di novembre: ha vinto Jeannette Jara, la candidata comunista, che ne pensa?

Il numero di votanti è stato minore in queste primarie rispetto a quelle precedenti vinte da Boric, allora votarono 1.600.000 persone, adesso hanno votato in 1.400.000, quindi è una candidatura che parte con questa debolezza. Jara adesso è la candidata dello schieramento progressista, vediamo se la Democrazia Cristiana l’appoggerà in modo esplicito.

I sondaggi parlano di un vantaggio delle destre.

I sondaggi danno le destre vincenti e questo è grave perché abbiamo due candidati di un’estrema destra molto radicale, Kast e Kaiser. E poi c’è  Matthei, la figlia di un ufficiale dell’aviazione che partecipò alla giunta militare, che ha giustificato il golpe.

Sotto la presidenza di Boric si sono approvate diverse riforme: quella fiscale aumentandone la progressività, quella delle pensioni che amplia la copertura del sistema e la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore: che valutazione dà del suo governo?

Penso che sia stata una buona amministrazione, ha ereditato il processo di riforma costituzionale e quindi ha avuto un inizio molto difficile. Ma è riuscita ad avanzare in temi importanti per il Paese come le tre riforme che venivano richiamate.

Ci sarà mai una riforma della Costituzione di Pinochet?

Nutrivo molte speranze al riguardo. C’era stato un estallido social che il Paese era riuscito a canalizzare nelle istituzioni. C’erano molte aspettative col primo processo costituzionale, ma certo si tratta anche di processi che sono difficili. L’idea che qualunque cittadino possa essere un potere costituente è molto bella in teoria, nella pratica però questo cittadino qualunque può non avere la capacità di scrivere un testo costituzionale che richiede conoscenze tecniche. Questo è quanto da una parte è successo. Poi ci sono state molte manipolazioni da parte dei media che hanno inquinato il processo. Il primo testo non era male, non molto diverso da una Costituzione socialdemocratica europea. Si criticò molto il ruolo delle popolazioni indigene che veniva indicato, ma il Cile può essere un Paese che non riconosce le sue popolazioni indigene? Quello che lì si proponeva non è molto diverso da quello che è previsto nella Costituzione canadese rispetto alle sue popolazioni indigene. Ma ci fu una gestione da parte della stampa che indusse un sentimento di paura nella gente. E questo fu letto come un fallimento del governo Boric, anche se lui non aveva avuto alcuna responsabilità diretta.

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