Madre uccide i due figli e nasconde i corpi nelle valigie per anni in Nuova Zelanda: condannata all’ergastolo

La storia di Hakyung Lee è una di quelle vicende che segnano. Una madre, due bambini uccisi, anni di silenzio e infine una verità riemersa dall’oscurità con la violenza di un trauma collettivo. Ora, quella donna di 45 anni, originaria della Corea del Sud ma residente da tempo in Nuova Zelanda, è stata condannata all’ergastolo per l’omicidio dei suoi due figli, Yuna e Minu Jo. Una sentenza che mette fine a un caso che per anni ha riempito le cronache locali, lasciando dietro di sé dolore, incredulità e domande impossibili da cancellare.
Il 27 giugno 2018, nella loro casa di un sobborgo di Auckland, Lee ha tolto la vita a Yuna, 8 anni, e a Minu, 6 anni. Secondo la ricostruzione degli investigatori, ha sciolto pillole antidepressive nel succo di frutta dei piccoli, somministrando loro una dose letale. Poi, nel silenzio della notte, ha riposto i corpi in due valigie e li ha nascosti in un deposito di cui ha continuato a pagare l'affitto come se nulla fosse. Subito dopo ha cambiato nome ed è fuggita in Corea del Sud, lasciando alle sue spalle soltanto una stanza vuota e due assenze che nessuno avrebbe potuto spiegare.
Per quattro lunghi anni, i piccoli sono rimasti nascosti lì dentro, in quel magazzino dimenticato, finché nel 2022 una famiglia ignara ha acquistato l’unità all’asta. Quando hanno aperto le valigie, convinti di trovare soltanto oggetti abbandonati, si sono trovati davanti a un orrore inimmaginabile. Quel momento ha riportato alla luce un segreto che Lee aveva cercato di sotterrare insieme ai suoi figli.
Estradata nel novembre 2022, la donna si è trovata di fronte alla giustizia del Paese oceanico dopo un processo inizialmente rinviato per nuove indagini e perizie psichiatriche. L’8 settembre, l’inizio del dibattimento l’ha vista scegliere di difendersi da sola, isolata in una sala separata del tribunale, con l’aiuto di un’interprete e il supporto tecnico di due consulenti legali. Un’immagine forte, che ha accompagnato l’intero processo: una madre sola davanti alla legge, accusata di aver infranto il legame più sacro che esista.
La difesa ha tracciato il ritratto di una donna spezzata. Una “persona fragile”, caduta in una spirale depressiva dopo la malattia e la morte del marito, avvenuta pochi mesi prima degli omicidi. Secondo la loro ricostruzione, Lee si sarebbe convinta che sarebbe stato meglio se l’intera famiglia fosse scomparsa e, dopo aver ucciso i figli, avrebbe tentato lei stessa di togliersi la vita ingerendo le stesse pillole, fallendo per un errore nel dosaggio. Le perizie psichiatriche hanno confermato la presenza di una depressione profonda, pensieri suicidi e un forte senso di colpa, pur escludendo uno stato di follia: Lee era depressa, ma non incapace di intendere.
L’accusa, invece, ha parlato di lucidità, di ordine, di volontà. Ha definito le sue azioni come un “calcolo razionale”: l’occultamento dei corpi, il cambio di identità, la fuga all’estero. Tutti indizi che, secondo i procuratori, dimostravano che Lee fosse perfettamente consapevole del crimine che aveva commesso. Per la procura, la donna aveva ucciso i suoi figli per liberarsi dal peso di doversene prendere cura da sola.
Quando la giuria si è ritirata, è bastato meno di un pomeriggio: quattro ore appena per pronunciare un verdetto di colpevolezza per duplice omicidio. In aula, la madre dell’imputata, Choon Ja Lee, ha provato a raccontare lo choc di una famiglia distrutta. La sua testimonianza, letta davanti ai giudici, è risuonata come un grido di dolore: “Se voleva morire, perché non è morta da sola?”.
La sentenza dell’Alta Corte è arrivata poco dopo. Il giudice Geoffrey Venning ha condannato Lee all’ergastolo, con un minimo di 17 anni di detenzione prima della possibilità di libertà condizionale. Ha ricordato che le vittime erano “particolarmente vulnerabili”: due bambini che avrebbero dovuto trovare protezione nella persona che, invece, li ha traditi nel modo più irreparabile.