La sopravvissuta alla strage della Mavi Marmara ora a bordo della Flotilla: “La paura è umana ma penso a Gaza”

Gülden Sönmez ha un tono pacato, un velo nero che le copre il capo e la kufia sulle spalle. La incontriamo ad Augusta dove si sta preparando alla partenza della Global Sumud Flotilla. Fra qualche giorno salperà in mare per la prima volta dopo 15 anni, dopo quel tragico 31 maggio 2010, in cui lei era presente. Gülden è, infatti, una delle persone sopravvissute alla strage della Mavi Marmara, quando una flottiglia di attivisti trasportante aiuti umanitari e beni di primo soccorso tentò di forzare il blocco di Gaza e fu intercettata da forze navali israeliane nelle acque internazionali del Mar Mediterraneo. I militari israeliani iniziarono a sparare, furono decine i feriti e nove le vittime. Gülden a breve ripartirà per una missione spaventosamente simile a quella che le cambiò la vita.
Può presentarsi?
Mi chiamo Gülden Sönmez, ho 56 anni e vengo da Istanbul. Sono un'avvocata e mi occupo di diritti umani, di diritti dei rifugiati, di crimini di guerra, e di crimini contro l’umanità. Esercito la mia professione sia in Turchia che davanti a corti internazionali.
Perché sei qui oggi in Sicilia e perché hai scelto di salpare con la Global Sumud Flotilla?
A Gaza vediamo continuamente consumarsi un genocidio e innumerevoli crimini di guerra. Abbiamo visto i bambini morire sotto i bombardamenti e di fame. Israele ha imposto il blocco a Gaza. Tutto questo è una violazione sistematica del diritto internazionale. I palestinesi di Gaza ci hanno chiesto di fermare questa situazione. Per questo ho partecipato a tante manifestazioni, marce, cause legali, e abbiamo provato a inviare aiuti umanitari. Ma non basta. Le Nazioni Unite non riescono a fare nulla, non fermano questa situazione. I governi non hanno fatto nulla per fermare il genocidio. E adesso noi proveremo a fermarlo e a rompere il blocco navale con le nostre mani. La Global Sumud Flotilla è come la coscienza del mondo che si riunisce. Siamo insieme da tutto il mondo e andremo a Gaza. Ci proveremo e questo avrà un grandissimo effetto sul resto del mondo. Ora siamo in Sicilia, ma in tanti Paesi la gente si sta mobilitando e fa sentire la propria voce per sostenere questa missione.
Quando e perché hai cominciato a essere un’attivista per la Palestina?
Trent’anni fa. La mia missione, la mia storia, è sempre stata legata ai diritti umani, perché ho visto tante violazioni nel mio Paese e nel mondo. Fin da bambina guardavo i notiziari, ricordo Arafat, ricordo i problemi palestinesi. Sono sempre stata interessata alla questione palestinese. Ora ho 56 anni, e nella mia vita ho visto tante guerre: l’occupazione americana in Iraq, l’Afghanistan, la Cecenia, l’Ucraina e la Russia, la Bosnia, la Bosnia-Erzegovina, la Siria. Ho visto con i miei occhi che queste guerre non sono mai state tra esercito ed esercito, soldato contro soldato ma si è sempre trattato di eserciti che bombardano civili, e a morire sono sempre stati i bambini, le donne, gli indifesi. È completamente disumano e illegale. Forse non abbiamo il potere di fermare tutte le guerre del mondo, ma possiamo fermare questo sistema, questa pratica. E possiamo farlo con l’obiezione, con una protesta di massa. Così ho iniziato il mio attivismo per i diritti umani. Sono un’avvocata: a volte apro dei casi, affronto questioni legali. Ma non basta, perché nel mondo la guerra, il potere e la legge entrano in conflitto. Da un lato c’è la forza, dall’altro la legge e la giustizia. E oggi la via legale non basta per fermare le violazioni dei diritti umani. Per questo affianco alla pratica legale l’attivismo.
E tornando indietro, nel 2010 eri a bordo della Mavi Marmara. Puoi parlarci di cosa successe?
Allora avevo 40 anni. Quella missione era simile alla Global Sumud Flotilla: volontari da 37 Paesi, tutti con lo stesso obiettivo, rompere l’assedio e il blocco di Gaza. Eravamo persone di religioni ed etnie diverse, ma tutti civili. Allora Israele decise di non fermarsi, di farci del male, forse pensando di scoraggiare altre future flottiglie. Così i soldati israeliani salirono sulla Mavi Marmara e sulle altre barche sparando a chiunque. Arrivarono da elicotteri e da motovedette, su più ponti. Sparavano dappertutto. Io vidi quattro volontari uccisi, uno era un giornalista, Cevdet, fotografo. Venne colpito alla testa. Come avvocata ho seguito le autopsie: molte persone furono uccise a distanza ravvicinata. Nove morirono subito, un altro dopo quattro anni di coma. Siamo stati attaccati in acque internazionali, eravamo a circa 70 miglia da Gaza. Sparavano con proiettili diversi: di plastica, gas, ma anche veri. Decine di attivisti rimasero feriti. Tutti entrarono nel panico vedendo sangue e feriti a bordo. Noi pensavamo che Israele si limitasse a fermarci e avevamo deciso che se fossero saliti a bordo ci saremmo fermati, eravamo pacifici, senza armi. Ma loro agirono diversamente. L’esercito israeliano aveva deciso di ucciderci tutti. La Mavi Marmara era una nave molto grande, con oltre 500 volontari. Io ero al secondo ponte, dove c’era la sala con le trasmissioni in diretta. Mi occupavo delle comunicazioni, dicevo a tutti di restare calmi, di non reagire, altri soccorrevano i feriti. Ad un certo punto presi l'altoparlante e cominciai a gridare al popolo israeliano che quello che stava facendo il loro esercito era un crimine enorme, una vergogna per tutti loro. Ma quando gli israeliani iniziarono ad attaccarci erano convinti di aver bloccato tutte le comunicazioni, noi però avevamo due satelliti. Uno trasmetteva cosa stava succedendo a bordo e il mondo vide i soldati israeliani sparare. Per circa mezz’ora hanno sparato senza sosta, finché si accorsero che il secondo satellite stava ancora trasmettendo. Allora si fermarono: non volevano che il mondo vedesse cosa avevano fatto. È stata la presenza dei media a salvare le nostre vite. Dopo quell’episodio ho continuato a sostenere le missioni dal punto di vista organizzativo e legale, ma questa sarà la mia prima volta in mare dopo la Marmara.
E dopo cosa è successo?
Ci hanno portati al porto di Ashdod, e poi siamo stati arrestati per tre giorni, mentre i corpi sono stati rimpatriati nei loro paesi.
Cosa è cambiato da allora?
Dopo la Mavi Marmara, il governo israeliano cambiò politica: da allora, quando intercettano una barca, non sparano più, la fermano soltanto. Perché quell’attacco fu un grande problema per Israele davanti alla comunità internazionale. Il Consiglio per i diritti umani dell’ONU condannò Israele, molti Paesi firmarono il rapporto, e fu stabilito che la Flotilla era sotto la protezione del diritto internazionale. Negli anni a seguire Israele ha però riconquistato il supporto internazionale. Ma ora, dopo il 7 ottobre, tutte le cose sono cambiate. Tutto il mondo ha visto molto chiaramente la politica israeliana e come viene messa in pratica, e tutti stanno capendo la questione palestinese, l’occupazione, il genocidio, le questioni umanitarie, i bisogni di Gaza, e la storia del popolo palestinese. Questo ha avuto una grossa influenza sulla propaganda israeliana.
Hai paura che qualcosa di simile a quanto accaduto con la Marmara possa succedere anche questa volta?
Sì, sono umana, certo che ho paura. Ma dopo quello che sta accadendo a Gaza, i bambini e le donne che non hanno cibo, sotto bombardamenti incessanti, voglio solo andare a Gaza e abbracciare i bambini, stare con loro. Questo sentimento è molto più forte della paura, stavolta al 99% ho dimenticato la paura. Quando salpai con la Mavi Marmara ricordo che avevo paura in mare, di quello che sarebbe successo e dei soldati. Ma ora no, adesso è diverso. Non vivo più una vita normale, non dormo, non mangio, penso sempre a loro, ai bambini di Gaza. E questo mi spaventa molto di più che il rischio di questa missione. Mi fa più paura sentire di perdere ogni giorno il mio senso dell’umanità. Questo mi fa paura, più di tutto.
Come ti senti adesso?
Sono molto felice e speranzosa. Quando ero a bordo della Mavi Marmara ho visto persone ferite aiutare gli altri. Ricordo di quest’uomo a cui gli israeliani avevano sparato 9 proiettili allo stomaco, e un altro a cui avevano sparato 6 proiettili; entrambi sono morti aiutando gli altri. Vidi i video in seguito, loro sanguinano, stavano morendo, ma mentre si spegnevano tiravano via gli altri feriti. Voglio dire, stai morendo, ma ti prendi comunque cura dei tuoi compagni. Questo è un sentimento molto, molto alto, umano. È simbolo di un’umanità celeste, e questo mi da la forza.