“I raid di Israele possono spingere l’Iran verso la bomba atomica”: l’allarme dell’esperto del Crisis Group

Iran sotto i bombardamenti o Iran con le armi nucleari: un dilemma infernale. Perché “entrambi gli eventi possono avere ripercussioni disastrose per la regione”. Netanyahu, con il via libera di Donald Trump, ha scelto il primo corno del dilemma. Ma, paradossalmente, “i raid israeliani invece di impedire la costruzione dell’atomica di Teheran, probabilmente la accelereranno”.
Il responsabile dell’Iran Project di International Crisis Group, Ali Vaez, vede avvicinarsi il peggiore degli esiti: un cocktail diabolico che ha come suoi velenosi ingredienti sia la possibilità che la guerra iniziata con l’attacco di Israele porti a un’escalation incontrollabile, sia la possibilità che la potenza sciita diventi quanto prima una potenza nucleare. E che altri Paesi mediorientali possano imitarla.

Dottor Vaez, è più grave il rischio che l’attacco all’Iran inneschi un’escalation fuori controllo o il rischio che l’Iran abbia la bomba atomica?
Entrambe le circostanze comportano rischi enormi. Messe insieme, poi, rappresentano il peggior scenario possibile. E questo scenario si sta concretizzando.
Era una specie di alternativa del diavolo, quindi.
Qualcosa del genere. Il fatto è che i bombardamenti israeliani spingono definitivamente Teheran verso la bomba.
Può elaborare?
L’Iran ha già pagato il prezzo per le sue ipotetiche armi nucleari con anni di sanzioni, anche quando ha rispettato l’accordo del 2015 (il JCPOA, o Piano d'Azione Congiunto Globale sul nucleare iraniano, firmato nel 2015 e “affondato” da Donald Trump nel 2018, ndr). Nell’ultimo anno, e sopratutto in questi giorni, Teheran ha visto che il suo potere militare convenzionale non può dissuadere gli attacchi israeliani. Il passo logico successivo è costruire armi nucleari come deterrente.
Quanto è vicino l’Iran a possedere un ordigno nucleare?
Il criterio è il “tempo di breakout” per arricchire l’uranio. Nel 2015 era superiore a 12 mesi. Oggi è di sei giorni. Ma l’uranio arricchito non basta. Per “confezionare” la bomba e renderla operativa servono tra i tre e i 18 mesi, secondo l’intelligence americana.
Israele ha “normalizzato” gli attacchi preventivi contro membri del Trattato di non proliferazione?
Proprio così. Uno Stato che non fa parte del trattato ma è dotato di armi nucleari, Israele, ha attaccato uno Stato TNP sprovvisto di armi nucleari: questo mina alle fondamenta il regime di non proliferazione. L’Iran ha rispettato il trattato ma è stato lo stesso preso di mira, dimostrando che il trattato non protegge dall’aggressione esterna (Il TNP, o Nuclear Non- Proliferation Treaty, prevede che gli Stati non nucleari rinuncino alle armi atomiche, che quelli nucleari non gliele trasferiscano, che si negozi per il disarmo e che tutti possano valersi dell’energia nucleare civile, ndr).
E allora, liberi tutti?
Quel che sta avvenendo in questi giorni potrebbe motivare altri Paesi a dotarsi di armi nucleari.
Vedremo una corsa agli armamenti nucleari, in Medio Oriente?
Ci sono due fattori: capacità scientifico-tecnologica e disponibilità finanziaria. L’Egitto ha le conoscenze e le competenze, ma manca di fondi. L’Arabia Saudita ha tutti i fondi che vuole, ma meno capacità tecnico-scientifica. Non credo a una proliferazione nucleare improvvisa, a cascata. Ma alcuni Paesi inizieranno a sviluppare capacità latenti. Come ha fatto l’Iran: non un programma accelerato per ottenere l’arma, ma un inserimento graduale delle tessere del puzzle. In modo che se fosse necessario muoversi in quella direzione, lo si possa fare in tempi rapidi. È ciò che con ogni probabilità faranno ora Paesi come l’Arabia Saudita.
Però per l’Iran il risultato è stata una trappola: abbastanza vicino all’arma nucleare da suscitare allarme, ma non tanto da esercitare una reale deterrenza.
Infatti. Una strategia di preparazione latente, con cui un Paese sviluppa capacità tecniche e materiali senza dotarsi formalmente di armi nucleari ma mantenendosi la possibilità di farlo rapidamente in futuro, non crea deterrenza. D’altra parte, si è visto recentemente come anche le potenze nucleari — Russia, Israele — subiscano attacchi convenzionali. Le “atomiche” non sono uno scudo definitivo. Ma possono garantire la sopravvivenza del regime. La leadership iraniana sarà parecchio interessata a una garanzia del genere, quando questa guerra finirà.
L’uccisione di comandanti militari e scienziati da parte di Israele non compromette queste intenzioni di Teheran?
L’Iran non è mica Hezbollah. È uno Stato con profondità istituzionale. Può sostituire i suoi generali. E se muoiono alcuni scienziati il programma nucleare non si paralizza. Le conoscenze tecnico-scientifiche sono diffuse. Si lavora in questo campo da 30 anni. Solo l’impianto di Isfahan conta su 3.000 tra ingegneri e fisici. E poi, credo che l’Iran in futuro perseguirà un programma più limitato, Focalizzato sulle centrifughe avanzate. Con un solo scopo: produrre armi nucleari.
L’Iran arricchisce l’uranio fino al 60 percento. Per l’atomica serve poco meno del 90. I raid israeliani hanno allargato il divario?
No, Israele non ha danneggiato significativamente la scorta di uranio arricchito al 60 percento — la principale preoccupazione per la proliferazione.
Gli Stati Uniti potrebbero fornire a Israele le bombe bunker-buster, capaci di penetrare nella montagna di Frodow, che protegge il più importante impianto di arricchimento?
Israele ha già bombe perforanti e le ha usate a Gaza e in Libano (bombe perforanti Usa BLU-109 sono state probabilmente usate nel raid che ha ucciso il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, ndr). Non ha però le bombe da 30.000 libbre (13.600 kg, le GBU-57, ndr) necessarie per danneggiare siti come Fordow. Solo gli Usa le possiedono, insieme ai bombardieri strategici B-2 e B-52 per lanciarle. Al momento, quindi, Israele può ritardare il programma iraniano, non distruggerlo.
A meno che Trump non gli dia queste superbombe. Il conflitto potrebbe degenerare in una guerra più ampia che coinvolga gli Usa?
Se si intensifica, sì. Vittime americane e interruzioni nei flussi energetici globali sono i due fattori che possono trascinare gli Stati Uniti in uno scontro diretto con l’Iran. E allora Teheran e i suoi proxy in Yemen e in Iraq potrebbero colpire basi Usa nella regione. E anche i Paesi del Golfo. Entrambe le parti stanno rapidamente salendo i gradini dell’escalation.
Quindi siamo vicini a una guerra regionale totale?
Molto vicini. Con missili che attraversano confini e forze occidentali coinvolte, ci siamo quasi. Non sono più solo scambi reciproci di missili tra Israele e Iran, come successo nell’ultimo anno. Questa volta è diverso. Colpendo volutamente edifici civili, si è oltrepassata una linea rossa.
Vladimir Putin potrebbe mediare tra Israele e Iran?
Non mi pare. L’Iran diffida della Russia per ragioni storiche. l’attuale alleanza è più tattica che fidata. In crisi recenti, Teheran ha preferito l’Oman come mediatore. Un candidato migliore sarebbe forse il principe ereditario saudita o Erdogan. Ma la vera mediazione deve avvenire tra Iran e Usa. Non tra Iran e Israele.
Come valuta la posizione degli Stati Uniti?
Il presidente Trump pensava che i bombardamenti potessero spingere l’Iran a negoziare. È un grossolano errore di calcolo. Un Iran indebolito è meno propenso a cedere, perché non vorrà apparire ancora più debole. Trump presto capirà che Netanyahu lo ha messo di fronte a un fatto compiuto. Con la speranza che si unisca al conflitto, non che lo fermi.
E quando se ne accorge, che fa il presidente americano?
Si troverà davanti a una scelta: lasciare che sia Netanyahu a determinare il destino della sua presidenza, oppure porre fine al conflitto per evitare conseguenze politiche nefaste come l’aumento dei prezzi globali dell’energia e l’alienazione della sua base elettorale — fortemente contraria a nuovi interventi militari americani in Medio Oriente.
Israele spera in una rivoluzione in Iran. I bombardamenti potrebbero portare al collasso del regime?
È uno scenario irrealistico. Non esiste un’alternativa valida alla Repubblica Islamica dentro o fuori l’Iran. Israele può destabilizzare il Paese (in questo senso va letto l’attacco alla TV pubblica, arma del consenso, ndr) ma non creare una democrazia liberale a Teheran. Il suo vero obiettivo è indebolire il Paese facendolo diventare come la Siria o l’Iraq: diviso internamente e concentrato sulla sopravvivenza più che sulla proiezione del potere.
C’è una via d’uscita?
Solo Trump può aprirla, con una strategia a doppio binario. Primo, deve trattenere Israele minacciando di tagliare le forniture di armi offensive. Secondo, deve avvertire l’Iran che l’escalation potrebbe provocare il coinvolgimento Usa. Ma oltre a questo, Trump deve offrire all’Iran un alleggerimento delle sanzioni. Per dimostrare che — al contrario di Netanyahu — non punta a un cambio di regime. Questo renderebbe un negoziato più credibile, per Teheran.