
La strada per la seconda tregua tra Israele e Hamas dopo il primo cessate il fuoco raggiunto lo scorso 19 gennaio, e poi stracciato unilateralmente da Tel Aviv lo scorso marzo, è ancora in salita. Dopo il via libera del movimento islamista, decimato dal genocidio in corso a Gaza che è costato fin qui la vita di oltre 62mila palestinesi, a una proposta di tregua parziale di 60 giorni, le autorità israeliane sono tornate a fare ostruzionismo chiedendo il rilascio immediato di tutti i rimanenti 50 ostaggi, ancora nelle mani del gruppo dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, prima di dare il loro assenso alla tregua.
Israele accetterà l’accordo?
I colloqui tra Israele e Hamas sono entrati in una fase frenetica e decisiva. A conferma del momento critico negli sforzi negoziali, è arrivata anche la visita delle ultime ore della guida del Mossad, David Barnea, a Doha in Qatar.
Fin qui Tel Aviv non ha ufficialmente rifiutato l'accordo preliminare, stabilito dai mediatori di Qatar ed Egitto. Ma una risposta definitiva da parte israeliana dovrebbe arrivare non prima di venerdì. Secondo la bozza che è circolata nei giorni scorsi dovrebbero essere rilasciati la metà degli ostaggi nelle mani di Hamas. Se alcuni di loro sono già deceduti, dieci dovrebbero essere gli israeliani in vita da rilasciare subito, insieme ai cadaveri di altri 18 ostaggi. Nei 60 giorni di tregua preliminare dovrebbe essere negoziata una seconda fase che prevede la fine delle ostilità e il rilascio degli ultimi ostaggi, vivi o morti.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha commentato ufficialmente la proposta, accettata dai negoziatori palestinesi, limitandosi a sottolineare che "Hamas sta subendo un'immensa pressione". Netanyahu nei giorni scorsi aveva alzato la posta in gioco sostenendo che la richiesta israeliana prevede "il rilascio di tutti e 50 gli ostaggi nelle mani di Hamas". Queste affermazioni fanno pensare che le autorità israeliane non abbiano intenzione di accettare l’intesa puntando su obiettivi molto più ambiziosi, come il completo disarmo e la distruzione di Hamas, la demilitarizzazione di Gaza, il controllo dei confini della Striscia e l’avvio di un governo non guidato né da Hamas né dall’Autorità palestinese.
Il piano di occupazione permanente di Gaza
Questa è anche la settimana in cui il governo di Tel Aviv dovrebbe approvare il piano di occupazione permanente di Gaza trasformando il Sud della Striscia in un campo di concentramento per i palestinesi che non accetteranno i piani di deportazione e pulizia etnica di Netanyahu, perpetrati con l’accordo degli Stati Uniti secondo il così detto progetto, lanciato dal presidente Usa Donald Trump lo scorso inverno, che vorrebbe trasformare Gaza nella "Riviera del Medio Oriente".
Il piano israeliano, che include un nuovo attacco su larga scala per occupare Gaza City, punta all'occupazione dell'intera Striscia ed è stato rilanciato il mese scorso in parallelo con il fallimento dei colloqui per il cessate il fuoco. È sempre più evidente che le autorità israeliane, segnate anche da una rilevante opposizione interna concretizzatasi nello sciopero generale contro il governo e la guerra dello scorso 17 agosto, puntano sulla guerra permanente per mantenere in piedi un esecutivo segnato da serie divisioni sulle strategie da adottare nel conflitto con l'ala più radicale di estrema destra, rappresentata dai ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
Secondo Smotrich, Israele non dovrebbe accettare un accordo che determini "la fine della guerra". "È proibito arrendersi e darla vinta al nemico", ha sostenuto. Tuttavia, le famiglie degli ostaggi e gran parte degli israeliani concordano sulla necessità che si arrivi a un'intesa che preveda il rilascio degli israeliani, ancora in mano di Hamas, tra i 250 presi in ostaggio dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 che costarono la vita a 1200 israeliani. "Eravamo vicini all’intesa già un mese fa. Netanyahu sta ponendo condizioni inaccettabili per ostacolare l’accordo", ha sostenuto Einav Zangauker. Suo figlio Matan, 25 anni, è tra gli ostaggi ancora in vita nelle mani di Hamas.
Come se non bastasse, in autunno il premier Netanyahu dovrà far fronte al processo in cui è accusato di corruzione. E così il suo governo rischia di cadere nelle prossime settimane aprendo la strada ad elezioni anticipate.
Il disco verde di Hamas
La grande novità negoziale è il via libera di Hamas all'intesa. Nella giornata di lunedì, fonti vicine ai politici di Hamas avevano fatto trapelare la possibilità di arrivare a un accordo. In particolare, il movimento che governa Gaza avrebbe limitato le richieste avanzate nelle precedenti tornate di negoziati, accettando la presenza militare israeliana in "zone cuscinetto di sicurezza" all’interno della Striscia.
Il funzionario di Hamas, Taher al-Nuhu, ha in particolare sostenuto che il movimento non avrebbe chiesto alcun emendamento alla proposta in discussione in Qatar definendola come un "accordo parziale che avrebbe portato a un’intesa più ampia". Il politico ha anche sostenuto che lo scopo del cessate il fuoco sarebbe stato quello di avviare ulteriori colloqui di pace sin dal primo giorno di stop delle ostilità per arrivare a una tregua permanente.
A conferma del clima positivo dei colloqui in corso, sono arrivate le dichiarazioni del ministro degli Esteri del Qatar, Majed al-Ansari. Il politico ha in particolare sottolineato come i punti dell’intesa fossero molto simili al piano presentato lo scorso giugno dall’inviato speciale Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, prima dell'ultima visita di Netanyahu a Washington dello scorso luglio che avrebbe dovuto aprire la strada per un'intesa dopo la guerra dei 12 giorni tra Tel Aviv e Teheran, conclusasi a fine giugno con i raid di Washington contro le centrali nucleari iraniane.
La bozza delineata da Witkoff prevedeva una tregua di due mesi nella quale avrebbero dovuto essere rilasciati 28 ostaggi in cambio di 125 detenuti palestinesi, condannati all’ergastolo, insieme a 1.111 prigionieri arrestati a Gaza. In quell’occasione il rifiuto di Hamas di accettare l’intesa è stato motivato dall’assenza di una garanzia che includesse un cessate il fuoco permanente.
Il via libera di Hamas sarebbe arrivato in particolare in seguito alle pressioni egiziane, tra i principali negoziatori nei 22 mesi di guerra, nonostante posizioni molto vicine a Israele, con un incremento del 50 per cento degli scambi commerciali tra i due paesi dopo l’inizio del conflitto. L'intesa di compromesso dovrebbe permettere la demilitarizzazione di Gaza con il passaggio delle armi in dotazione del gruppo sotto il controllo egiziano per un periodo di tempo indeterminato.
Le modalità dell’avvio della tregua
La proposta del Qatar accettata da Hamas prevede tappe ben scandite nelle tempistiche di attuazione. Il primo giorno dovrebbero essere rilasciati otto ostaggi ancora vivi e altri due dopo 50 giorni. I corpi di altri cinque ostaggi dovrebbero essere consegnati il settimo giorno dall'avvio della tregua, cinque dopo 30 giorni e altri otto nel 60esimo giorno di tregua.
In cambio Israele dovrà rilasciare 1.500 detenuti palestinesi di Gaza e altri 150 prigionieri condannati all’ergastolo, insieme a 50 con condanne meno gravi.
Secondo questa bozza di accordo, i militari israeliani dovrebbero ritirarsi dalla Striscia mantenendo le loro posizioni solo nei corridoi Morag e Philadelphi che rispettivamente dividono Khan Younis dal Sud di Gaza e segnano il confine meridionale con il valico di Rafah e l’Egitto.
La carestia continua
Eppure, nonostante i colloqui, non si fermano a Gaza i raid israeliani, la crisi umanitaria, la carestia e la malnutrizione, con oltre il 90 per cento delle case danneggiate o distrutte dai bombardamenti, il sistema sanitario, idrico ed educativo distrutto e la permanente mancanza di cibo che, secondo le Nazioni Unite, sta affamando la popolazione locale. Mentre non si ferma la strage di giornalisti che documentano le gravi violazioni dei diritti umani, perpetrate da Idf, come nel caso dell’uccisione del reporter di al-Jazeera, Anas al-Sharif.
Anche se alcuni aiuti umanitari sono entrati a Gaza nelle ultime settimane, la carestia continua. Lo ha confermato il portavoce delle Nazioni Unite, Thameen al-Kheetan. "Gli aiuti autorizzate da Israele sono molto inferiori alle quantità necessarie per fronteggiare la fame", ha ammesso al-Kheetan. Non solo, il rischio di carestia è il “diretto risultato delle politiche israeliane di blocco degli aiuti umanitari”.
Come se non bastasse, il piano di svuotamento della Striscia da parte dell’esercito israeliano (Idf) ha prodotto demolizioni programmate senza precedenti di migliaia di edifici in tutta Gaza, dopo il ritiro unilaterale dal cessate il fuoco di gennaio, lo scorso marzo, voluto da Israele. E così intere città e quartieri di periferia sono stati distrutti in modo pianificato con lo scopo di costringere la popolazione di Gaza a lasciare la propria terra, nonostante abbia fin qui dimostrato una grande volontà di resilienza.
La strategia di Hamas di accettare le condizioni per il cessate il fuoco, per quanto dure siano, sta mettendo le autorità israeliane con le spalle al muro. A questo punto Netanyahu dovrà davvero dimostrare se il suo obiettivo è la guerra permanente, per superare le difficoltà di politica interna, o la necessità di arrivare a una fine del conflitto, come chiesto a gran voce dalle proteste di piazza in Israele. Le pressioni internazionali, come gli annunci del riconoscimento dello stato palestinese da parte di Francia e Gran Bretagna, dopo gli altri 147 paesi membri delle Nazioni Unite che hanno già riconosciuto la Palestina, o la possibilità di approvare nuove sanzioni contro Israele se non accetterà di siglare l’accordo per una tregua con Hamas, stanno di sicuro avendo i loro effetti.
Tuttavia, la possibile tregua continuerà a essere una semplice pausa di un conflitto che va avanti da quasi ottant'anni, così come la possibilità che esista davvero uno stato palestinese, resteranno solo sulla carta se non si risolveranno le questioni di fondo del conflitto a partire dallo status di Gerusalemme Est fino alla crescente presenza di colonie israeliane in Cisgiordania e lo stato di assedio e di genocidio in cui vive la Striscia di Gaza.
