Ferito dalle bombe a Gaza dopo il cessate il fuoco: “Qui è tutto distrutto, in ospedale non hanno potuto curarmi”

"Anche se c’è il cessate il fuoco non c’è vita a Gaza. Gaza è ancora molto pericolosa, la nostra vita, le nostre tende, tutta Gaza è distrutta", racconta a Fanpage.it Mohamed Alamarin, dopo giorni di silenzio passati tra quel che resta degli ospedali di Gaza.
In due anni l’esercito israeliano ha infatti minuziosamente sepolto Gaza sotto oltre 61 milioni di tonnellate di macerie, ossia 169 chilogrammi di macerie per ogni metro quadrato del territorio della Striscia, rendendola un cumulo di detriti almeno per i prossimi 15 anni. La testimonianza di Mohamed racconta una realtà dove la "pace di Trump" non significa sicurezza, ma solo una pausa nell'orrore.
"Non sono al sicuro a Gaza, nessuno è al sicuro a Gaza", ripete, "l’occupazione israeliana è vicina a dove sono io, la linea gialla è solo a due chilometri da qui. Posso vedere i militari e i carri armati. Di notte sparano fino alle 6-7 del mattino, per spaventare le persone e i bambini, e poi si fermano ma non si ferma la nostra paura".
Mohamed adesso vive ad Al Zaytuna, a Gaza City, nella casa della madre, insieme a lei e ad altre 11 persone, la moglie, le sei figlie e sei nipoti, dopo che la sua tenda è stata bombardata. "Adesso vivo nella casa di mio fratello, perché la mia tenda è stata bombardata. Dal lato sinistro non sento più niente, ho perso l’udito, perché l’esplosione è stata molto forte. Non posso neanche camminare bene, perché ho ancora una scheggia nella gamba destra”, spiega mentre rimette insieme i pezzi di ciò che è avvenuto quel pomeriggio di domenica scorsa.
"Alle 8 sono andato dal Nord della Striscia verso il Sud. Sono andato a Deir al Balah, ho controllato che i miei amici stessero bene, e ho fatto la pizza per i bambini sfollati. Alle 3 sono andato ad Al-Mawasi, volevo controllare che fosse tutto a posto nella cucina popolare (la cucina popolare dell'Ong italiana ACS con cui lavora da molto tempo Mohamed)".
"Sono arrivato alle 4:30 del pomeriggio e in cucina c’erano i miei fratelli e i miei amici. Ho finito il pranzo e sono andato in tenda per caricare il cellulare. Mio fratello è andato fuori per lavarsi la faccia perché non abbiamo l’acqua nella tenda. Appena mio fratello è uscito, c’è stata l’esplosione. Non so cosa sia successo, ricordo solo il caos. La prima esplosione dentro la tenda è stata molto forte. Non vedevo niente, solo fumo bianco. Non potevo vedere, sentire, respirare. Dopo due secondi, un’altra esplosione dentro la tenda. Lì ho perso i sensi".

Mohamed quel giorno si è svegliato tre ore dopo, all'ospedale Nasser di Khan Younis, in mezzo ad altre decine di feriti, vittime dei bombardamenti israeliani durante il cessate il fuoco. "Non so niente", dice, ancora sotto shock, "cinque persone sono state uccise in quell’esplosione. Due uomini, due miei amici che lavoravano nella cucina e un bambino. Più quattro persone ferite".
Mohamed è sopravvissuto: "Sono l’unico che non è morto che stava dentro la tenda". Ma sopravvivere a Gaza vuol dire ancora oggi dover combattere per non morire a causa dell'assenza di cure: "La situazione negli ospedali del sud di Gaza è tremenda, non c'è niente, i dottori sono molto stanchi. Io ricordo che stavo sdraiato a terra quando mi sono svegliato al Nasser Hospital, non c’era nessun posto libero. Ma negli ospedali mancano anche le medicine, al Nasser non avevano neanche un’aspirina per me. Ora i miei amici vanno sempre al Nord a prendere delle medicine dall’ospedale cattolico. Invece il Sud di Gaza non ha niente mentre tutti i gazawi hanno bisogno di medicine".
La sua condizione è lo specchio di quella di un'intera generazione di gazawi sopravvissuti al genocidio israeliano, ma che adesso non possono trovare pace in una Gaza disintegrata: "La vita è molto difficile, la maggior parte delle persone giovani a Gaza non ha più un arto. Qui non c’è vita. In quale luogo può esserci vita se abbiamo bisogno dei nostri arti prima ancora che delle medicine? Qui non c’è niente".
Sopravvivere, anche con la tregua, ha un costo insostenibile, la fame – nonostante gli aiuti umanitari ricomincino ad entrare – è un problema costante. "Ho bisogno di carne, uova per sentirmi meglio, ma queste cose a Gaza ancora non ci sono. E se ci sono, sono carissime a causa del mercato nero. La carne e il pollo costano 80 dollari al chilo. Pochissime persone possono permetterselo".
Mohamed intanto aspetta di poter evacuare, nonostante avesse già ottenuto un visto per venire in Italia con tutta la sua famiglia che però non gli è stato ancora rilasciato dalle autorità italiane competenti. "Le persone hanno bisogno di uscire, di avere una vita come le altre persone del mondo, di studiare, di potersi curare in un ospedale, di poter dormire la notte, di potersi sentire sicure" conclude l’uomo prima che si interrompa ancora una volta la linea.