
Dopo quattro giorni di tregua a Gaza, il rilascio dei 20 ostaggi israeliani ancora vivi nelle mani di Hamas, di 1966 detenuti palestinesi e il parziale ritiro dell’esercito israeliano (Idf) da Gaza, il summit di Sharm el-Sheikh in Egitto, con oltre 20 capi di stato, ha rappresentato l’avvio della seconda fase dell’intesa per l’avvio del disarmo di Hamas e della governance della transizione della Striscia, e allo stesso tempo il momento culminante dei negoziati, dopo l’avvio della prima fase della tregua a Gaza, con la firma simbolica dell’accordo per il cessate il fuoco. Prima di tutto si è trattato di un momento centrale per la diplomazia internazionale con la presenza dei principali leader europei, degli Stati Uniti e del Medio Oriente a suggellare l’accordo in 20 punti, annunciato da Trump e Netanyahu a Washington lo scorso 29 settembre.
Il primo incontro tra Trump e al-Sisi
Il vertice è stato un successo diplomatico per il Cairo, come riconosciuto da Trump, per il solo fatto che il summit si sia svolto in Egitto, confermando la centralità del paese nei lunghi colloqui per il cessate il fuoco e nel fare pressioni su Hamas per accettare l’accordo. In varie occasioni l’appiattimento del presidente egiziano sulle posizioni a favore di Israele e per la marginalizzazione di Hamas aveva favorito il Qatar nei colloqui di pace. Questo è accaduto almeno fino al 9 settembre, quando il tavolo negoziale di Doha è stato colpito dai raid israeliani. Non solo, a Sharm, per la prima volta dal suo insediamento, il presidente degli Stati Uniti ha incontrato il suo omologo egiziano, Abdel Fattah al-Sisi. Si è trattato in sé di un evento molto significativo perché il Cairo ha più volte esercitato il suo soft power per evitare le deportazioni dei palestinesi di Gaza nel Sinai. Addirittura, a dimostrazione delle tensioni tra il Cairo e Tel Aviv, pochi giorni prima dell’annuncio dell’accordo, al-Sisi era arrivato a definire Israele come un “nemico” nonostante i crescenti rapporti commerciali tra i due paesi e la dipendenza egiziana dal gas israeliano.
L’assenza di Netanyahu
Sebbene per alcune ore era sembrato possibile che il premier israeliano potesse partecipare al vertice di Sharm, dopo aver incassato le ovazioni della Knesset nel discorso fiume di lunedì mattina che ha visto celebrare i meriti di Trump e del suo entourage, Netanyahu non ha partecipato al summit.
Le motivazioni ufficiali riguardano “la vicinanza della festività ebraica” ma in realtà il premier israeliano sa bene che in molti paesi arabi esiste un consolidato odio rispetto alla pulizia etnica, al genocidio e all’apartheid che subiscono i palestinesi. Non solo, pende sul suo capo un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità che ne limitano drasticamente la mobilità. Come se non bastasse, vari paesi, tra cui la Turchia, avrebbero posto il veto sulla partecipazione di Netanyahu, a partire dal premier iracheno, Muhammed Shia al-Sudani, che ha minacciato di lasciare Sharm nel caso il premier israeliano fosse stato presente.
Le incognite della transizione
Ovviamente l’assenza di Hamas ha impedito qualsiasi segno di distensione reciproca tangibile tra le parti, come una stretta di mano, dopo il genocidio costato la vita ad almeno 67mila palestinesi. Secondo il piano di Trump, Hamas ora deve avviare una fase di disarmo e non dovrebbe ricoprire alcun ruolo nella transizione della Striscia. Non è detto che gli affiliati del gruppo non potranno continuare a fare politica in clandestinità, oppure con tentativi di cooptazione all’interno di altri gruppi. Non solo, la presenza a Sharm el- Sheikh dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen che neppure dovrebbe ricoprire un ruolo nella fase di transizione farebbe prevedere un successivo e riformato coinvolgimento dei politici moderati nel futuro politico della Palestina.
Resta ancora l’incognita sulla composizione del “Board of Peace”, l’organismo tecnico che dovrebbe guidare la fase di transizione e che potrebbe essere presieduto dallo stesso Trump e dalla figura controversa di Tony Blair, presente a Sharm, e potrebbe includere anche il presidente egiziano al-Sisi.
Raid in Cisgiordania contro le case dei prigionieri politici
Ma il cammino verso la fine della guerra è pieno di incognite. Solo nel terzo giorno dopo l’avvio della tregua, l’Idf ha attaccato le case di alcuni prigionieri politici palestinesi inclusi nella lista dei detenuti da liberare in Cisgiordania. Le loro abitazioni, mentre alcuni tra i rilasciati sono stati deportati a Gaza e in Egitto, sono state attaccate nelle città di Nablus, Ramallah, Hebron, Tulkarem e Qalqilya. Dei prigionieri politici palestinesi rilasciati, 250 hanno subìto condanne a lunghe pene o all’ergastolo. Tuttavia, nonostante il pressing negoziale in questo senso, Israele si è rifiutato di liberare il leader di Fatah, Marwan Barghouti, e il segretario generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina (Pflp), Ahmed Saadat.
L’assenza dell’Iran
Nonostante alla vigilia del vertice di Sharm fosse stata annunciata la presenza del presidente moderato Massoud Pezeshkian, in una nota, il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, la scorsa domenica, aveva fatto sapere che l’Iran non avrebbe partecipato al summit. Il motivo principale per cui i diplomatici di Teheran non sono in Egitto è legato alla guerra dei 12 giorni di Netanyahu e Trump che nel giugno scorso ha colpito le infrastrutture militari e civili del paese, causando oltre mille morti. Quello è stato il punto di svolta del conflitto, come assicurato dallo stesso Trump, perché ha dimostrato che il presidente Usa avrebbe permesso qualsiasi cosa a Netanyahu, mettendo in allerta tutti i paesi arabi vicini, a partire dall’Egitto, che sarebbero potuti essere i prossimi nella lista dei paesi presi di mira da Tel Aviv.
Un accordo con Teheran
Da quel momento nuove sanzioni delle Nazioni Unite hanno colpito il paese e una crisi diplomatica si sta consumando tra Iran e Unione europea che si è espressa a favore del riconoscimento della sovranità degli Emirati Arabi Uniti sulle isole iraniane Tunb nel Golfo persico. Nel suo discorso alla Knesset e in Egitto, Trump ha più volte richiamato la possibilità di trovare un accordo sul programma nucleare iraniano con la fine delle sanzioni sottolineando la volontà di Teheran di raggiungerlo. Tuttavia, la strada per un’intesa appare in salita dopo il ritiro unilaterale di Washington dall’accordo negoziato da Obama nel 2015 e il fallimento dei colloqui in Oman e a Roma, prima della guerra dei 12 giorni, in cui gli Usa hanno chiesto l’azzeramento dell’arricchimento dell’uranio da parte iraniana.
Non solo, Trump persegue l’indebolimento di tutti i gruppi finanziati per procura da Teheran a partire dal disarmo di Hezbollah in Libano, degli Houthi in Yemen e della galassia di milizie sciite finanziate dall’Iran nella regione.
La vetrina per Turchia e paesi europei
Il vertice di Sharm el-Sheikh ha rappresentato una vera e propria vetrina, insieme all’occasione di incontri bilaterali e multilaterali, per Turchia e paesi europei, segnati da mobilitazioni senza precedenti a favore della Palestina. Recep Tayyip Erdoğan, in prima fila in Egitto, è stato centrale nella fase negoziale per spingere Hamas ad accettare l’accordo, mentre i soldati turchi (insieme a quelli egiziani che manterrebbero il controllo del corridoio Philadelphi) potrebbero avere un ruolo nella Forza internazionale di stabilizzazione (Fis), chiamata a garantire il cessate il fuoco a Gaza. Il governo turco ha criticato molto duramente il genocidio nella Striscia ma continua ad intrattenere ottimi rapporti commerciali con Israele.
Da Macron a Meloni
Negli ultimi mesi, se la Spagna, presente a Sharm con Pedro Sanchez, e l’Irlanda hanno imposto lo stop alle forniture di armi a Israele, Francia e Gran Bretagna, presenti in Egitto con Emmanuel Macron e Keir Starmer, hanno riconosciuto lo stato di Palestina, insieme a molti altri paesi, lo scorso settembre. Si tratta di una decisione tardiva e destinata a rimanere sulla carta se continua l’occupazione sistematica e aumenta la costruzione delle colonie israeliane in Palestina. Dal canto suo, l’Italia, presente a Sharm el-Sheikh, con la premier Giorgia Meloni, è stata tra i paesi protagonisti delle più ampie mobilitazioni per la Palestina degli ultimi anni con gli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, e il sostegno della società civile alla consegna di aiuti umanitari della Global Sumud Flotilla, intercettata dalla Marina israeliana in acque territoriali palestinesi.
Tuttavia, il governo italiano ancora non è arrivato a riconoscere lo stato palestinese ed è fortemente schierato a favore delle autorità israeliane.
Una spinta per gli Accordi di Abramo
Il vertice di Sharm el-Sheikh rappresenta una spinta verso il ritorno agli Accordi di Abramo e alla normalizzazione tra i paesi arabi e Israele. Questo percorso, culminato con il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme durante la prima presidenza Trump, è stato messo a dura prova dagli attacchi del 7 ottobre 2023 e dalle mobilitazioni contro il genocidio che hanno attraversato tutto il Medio Oriente, coinvolgendo anche le opinioni pubbliche di paesi centrali per gli equilibri regionali come l’Arabia Saudita.
L’obiettivo di Trump e di Netanyahu è di ripartire da quegli accordi per continuare a fare business con le monarchie del Golfo e spingere il più alto numero possibile di paesi della regione a riconoscere Israele, dopo Marocco, Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti.
